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September 7 2015 16:30 | National History Museum

Intervento di Nedim Gursel



Nedim Gürsel


Writer, Turkey

Tanti anni fa in Turchia, all' epoca dell'ascesa del movimento rivoluziona-rio, noi cantavamo all'unisono:

Questo paese che assomiglia alla testa di una giumenta
venuta al galoppo dall'Asia lontana
Per immergersi nel Mediterraneo
Questo paese  é il nostro

 Questi versi di Nazim Hikmet evocano in modo preciso l'altopiano dell'Ana-tolia circondata dai suoi tre mari, la geografia del nostro paese e direi anche la sua fotografia presa da un satellite. D'altra parte, sebbene noi siamo me-diterranei, l'Anatolia in Occidente non é chiamata "piccola Asia"? Nazim non evoca qui una presenza comune che i romani chiamavano: Mare nostrum? alla quale io non credo però molto. Forse si tratta, per me, di un certo mare nostrum: quello dell'indimenticabile poesia di Can Yucel che parlava del "no-stro Denis", Denis Gezmis e non del Mediterraneo; se no non avremmo sen-tito tanta emozione e tanto dolore. Noi non avremmo evocato il ricordo di questo militante rivoluzionario che si identificava con l'immagine del mare. Potremmo noi dire che Deniz Gezmis è nostro e che il Mediterraneo è anche lui nostro? Bisogna ripeterlo. Anche se noi abbiamo costruito un impero dal Danubio all'Eufrate -per secoli noi abbiamo regnato su tre continenti-, e an-che se noi ci consideriamo da circa due secoli come una parte inseparabile dell'Europa, noi siamo in realtà un popolo di nomadi. Si, noi siamo venuti al galoppo dall'Asia, noi abbiamo attraversato una parte dell'Anatolia per rag-giungere infine il Mediterraneo. Il nostro primo marinaio Can Bey tirò fuori la spada quando vide avanzare le onde  come  un esercito in file compatte. Cemal  Sureya, nel suo poema Medio Oriente , diceva che i nostri venditori di gelati si comportavano come gli ufficiali di marina e che era curioso con-statare che l'emblema delle nostre linee marittime nazionali era un piccone. E aveva ragione. Sì, da quando Maometto il Conquistatore ha fatto cammi-nare le sue navi sulla terra, noi siamo i figli di una nazione " terrestre”. Ma che importa! Da 700 anni, noi abbiamo considerato l'Anatolia come nostra patria, con la sua steppa, il suo entroterra e anche le sue montagne, la cate-na del Taurus le cime del Kaçkar. Fortunatamente noi abbiamo uno scrittore che ha scritto sotto lo pseudonimo di “peccatore di Alicarnasso” l'unico che ha capito che cos'era la coscienza mediterranea; di questo spazio, lui ha fat-to la sua geografia affettiva.
Se il nostro paese è circondato da tre mari, Istanbul con il suo Bosforo, é co-struita nel luogo del loro incrocio. Una città antica, molto bella, unica. Aperta sul Mare Nostrum dalla fondazione dell'impero romano d'Oriente. Unica con-figurazione della storia, all'incrocio, all'incontro dell'Occidente con l'Oriente. A volte con violenze e conflitti: molto sangue è stato versato nel nome della religione della civiltà. E’ per questo, senza dubbio, che ho scritto queste ri-ghe nel mio romanzo La prima donna:
"Ho fatto lentamente la tua conoscenza. Come si scopre a tastoni il corpo e-straneo di una donna. Tuttavia tu sei sempre esistita.Da quando i Megaresi raggiunsero le tue rive e, obbedendo  all'oracolo di Delfi, si stabilirono sulla penisola "di fronte ai ciechi" anche molto prima, a partire dal momento in cui, per scappare alle belve, degli uomini preistorici avevano costruito delle capanne di canne laddove le Acque dolci d'Europa si gettano nel Corno d'O-ro, tu sei sempre esistita (…) Alla giunzione dei tre mari. Tu hai avuto per nome  Lygos, Bisanzio, tu ti chiamasti la porta della Felicità, la casa del Calif-fato, la Sublime-Porta. E Istanbul. Che vuol dire la città. Sì, la città."
E mi ritornano quei versi di Costantino Cavafy, il grande poeta greco di Ales-sandria, simbolo della sensibilità mediterranea:

Tu non troverai altri paesi né altri mari.
La città ti seguirà
…  Ovunque tu vada tu ritroverai questa città

Dopo quanti anni?… Dopo quanto tempo che io porto Istanbul dentro di me? Ovunque vada, qualunque sia il porto dove getto l’ancora, il mare che attra-verso, questa città mi accompagna. Senza lasciarmi, come un pugnale ar-rugginito che apre e fa sanguinare le vecchie ferite cicatrizzate. Da quanti anni, a Parigi, a Berlino, in quei “paesi nemici” che sono le camere di alber-go, secondo le espressioni di Nazim Hikmet  che ha conosciuto il dolore del-l'esilio, Istanbul mi perseguita? Si, nei miei libri, Istanbul è progressivamen-te divenuta un tema ridondante perché essa non mi lascia più, come nel po-ema di Cavafy.
La sensibilità mediterranea è una cosa così, come una ferita che sanguina, una nostalgia senza fine. Forse, una camicia di fuoco come l'amore. Voi mo-rite dalla voglia di indossarla ma essa vi brucia la pelle, vi annienta. Io voglio dire che con la vostra città, nel vostro subconscio, si tratta di un legame sta-bilito con il ventre materno, di una relazione nevrotica. Una sorta di fedeltà, direi io, un cordone ombelicale.
Alcuni anni fa, il giornale Le Monde aveva domandato a certi scrittori di defi-nire la loro geografia affettiva. Ecco che cosa io avevo risposto:
"Quando sono in aereo, solo in mezzo alle nuvole, il sole mi fa torcere gli oc-chi; questo vecchio sole, guardiano della civiltà mediterranea. Io penso allo-ra che deve esistere una relazione carnale fra la geografia e il mio corpo. Spesso, diecimila  metri più in basso, io vedo il Mediterraneo. L'acqua blu lungo la quale io ho vissuto per lungo tempo prima di stabilirmi a Parigi mi rassicura. Io so che lei è tenera, familiare, schiumosa come la bocca di un cavallo. La paura che mi procura l'aereo scompare. Perché per me, il Medi-terraneo è il ventre della madre. Per avere sempre vissuto in sua prossimità, io non provo mai questo terrore -questo formidabile scuotimento nel mo-mento dell'espulsione dal ventre materno e della brusca venuta al mondo- che mi assale sorvolando l’Oceano."
Il nome di questo sentimento, di questa paura, di questo legame, di questo amore? Mediterraneo. Orhan Veli aveva scritto: "Verso Gemlik/ tu vedrai il mare /non essere stupito." Confesso di esserlo stato. Andando da Boursa a Istanbul, quando voi girate in direzione di Gemlik, il mare si staglia improv-viso davanti ad voi. È possibile non essere stupiti? Quando voi non ve  l'a-spettavate così blu, così infinito! Il vostro orizzonte si apre anche se nel vo-stro intimo voi siete chiusi. Per capire questo stato di stupore, questa emo-zione, questa gioia indefinibile davanti al mare, parecchi anni sono dovuti passare. E un giorno mi sono trovato a Alanya.
Questa città - senza parlare della distesa di sabbia che si stende ai due lati della penisola di Cilvarda, con i suoi movimenti di  nuvole bianche che scor-rono, colore del fiore di siliquastro all’alba- mi ricordava la nostalgia del lar-go. Forse essa fu durante i secoli il letto dei pirati e un porto dove si mette-vano a mare le navi del commercio. Forse in fondo all’orizzonte -io lo imma-ginavo-, un altro mare, più profondo di questo, un vero oceano cominciava…
Guardando dall’alto le rocce verso il basso dello scogliera, si vedeva il Medi-terraneo come si potesse toccarlo con le mani. io penso all’epoca in cui, sot-to i romani, i prigionieri si ostinavano a giocare alle “tre pietre”. Dalle rocce, a circa duecento cinquanta metri di altezza, tentavano la loro fortuna in que-sto gioco; ma, purtroppo nessuna pietra arrivava mai alla superficie del ma-re. Senza aver guadagnato la loro libertà, ai piedi dello scogliera, i prigionieri abbracciavano la morte e non il mare.
Anche io avevo tentato la mia fortuna. La pietra che avevo lanciato con tutte le mie forze era partita verso il mare; ma fermata nel suo slancio, era scom-parsa in mezzo alle rocce. Tuttavia, io, non ero prigioniero, la mia fine non sarebbe stata quella di una pietra sbattuta sullo scoglio della storia, né a-vrebbe assomigliato alla morte di migliaia di prigionieri gettati dall’alto della scogliera. Io ero proprio prigioniero di questa veduta, di questo mare blu che si stendeva ai miei piedi fino all’orizzonte. Il Mediterraneo, io lo volevo così, molto vicino, ma io mi sentivo come una pietra gettata lontano e che non l’avrebbe mai raggiunto.
Da anni anche se vivo a Parigi, la più bella città d’Europa, la più capricciosa, la più seducente, su diciamolo, la più perfida delle città, io mi sento sempre mediterraneo.
A Alanya, il mare ha il tono delle maioliche che ornavano una volta i muri dei palazzi di cui non restano oggi che delle rovine. Essa evoca la magia di quel-le aquile bicefale circondate da figure di animali e di piante che io ho visto sulle maioliche del palazzo di Kubad Abad, animali favolosi, pappagalli ar-rampicati sui rami e pesci che giocano in acqua. Esso prende il colore e fa ri-vivere il bagliore delle maioliche selgiuchide spezzate e distrutte dal tempo che sono restate sepolte nel terreno per secoli. E’ quello che lo rende così misterioso, così attraente e così lontano. Ineffabile come suggeriscono questi versi di Melih Cevdet Anday:

Si può capire il blu
si può capire il mare
ma chi capirà il mare blu

Secondo me, il segreto della sensibilità mediterranea si rivela tramite questi versi, cioè nello sforzo di questa comprensione.
 

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