Responsabile per la Cultura dell'Arcidiocesi di Buenos Aires, Argentina
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Da poco tempo, solo due mesi fa, sono tornato a Buenos Aires dopo aver passato alcuni giorni in Uruguay, terra fraterna per chi viene dal Rio de la Plata. Un amico mi ha invitato nella sua tenuta di campagna nella zona detta “Cerros de San Juan”, situata nell’interno, tra Colonia del Sacramento e Carmelo. Laggiù ho condiviso la vita quotidiana di un gruppo di persone dedite ai lavori rurali. Le ultime propaggini di antichissime montagne arrivano fino a lì. Enormi blocchi di granito millenari affiorano dalla terra. Gli abitanti del luogo continuano ad estrarre con ancestrale perizia da quelle rocce delle barre che utilizzano come tralicci per le recinzioni in filo spinato che delimitano gli orti.
Per tornare ho dovuto imbarcarmi su uno dei traghetti che uniscono Colonia a Buenos Aires, e attraversare il Rio de la Plata, l’estuario in cui confluiscono i fiumi Uruguay e Paranà, i nostri fiumi, che attraversano paesi e terre estese e che giungono qui dalle viscere stesse dell’America.
Fu dunque su questo fiume sonnolento e fangoso
Che le prue vennero a fondare la mia patria?
Avanzavano sobbalzando i battelli dipinti
Tra le ninfee della capricciosa corrente.
Così ce lo descrive Borges, e se lo domandava quando i suoi occhi potevano ancora vedere l’illimitata distesa d’acqua. Nei giorni di calma scorre una tale quantità d’acqua che il fiume sembra quasi immobile. E’ l’immensa lentezza delle terre americane. Quando lo si attraversa, anche nella parte più stretta, c’è un momento in cui entrambe le rive scompaiono. Contemplare quel fiume, guardarlo davvero, scoprirlo in tutta la sua ampiezza, nel suo significato più profondo, ti restituisce l’identità stessa dell’America, la palpitante appartenenza a una terra e una gente.
Dal battello ho potuto vedere le sagome dei palazzi che annunciano l’avvicinarsi di Buenos Aires; la proliferazione di torri seminate dalla speculazione edilizia. Il vecchio profilo della città è scomparso da decenni. La cupola e la torre della Merced, la mia parrocchia vicina al porto, che un tempo indicavano la sommità del dirupo, oggi non si vedono più. D’altronde non si vede neanche più l’estesa “Villa 31”, bidonville (o Villa Miseria come viene detta in Argentina), che dalla zona del porto oggi si estende lungo le antiche ferrovie fino a perdersi all’orizzonte.
Non sono un sociologo né un economista; sono il parroco di una parrocchia circondata attualmente dalla “City” Bonaerense, dove ogni giorno vengono a chiedere aiuto delle persone emarginate, nostri fratelli provenienti dalle bidonville della città e dall’agglomerato urbano che la circonda: il cosiddetto “Gran Buenos Aires”.
La Caritas parrocchiale cerca di rispondere a questo incessante andirivieni di persone senza dimora, senza lavoro, senza assistenza medica che negli ultimi due anni è cresciuto in modo allarmante e tragico.
Tutti sappiamo in che modo le situazioni di penuria e povertà estrema provocano nel nostro continente, dal Rio grande al nord fino al Cabo de Hornos al sud, esodi migratori. La marea dei migranti alla ricerca di condizioni di vita migliori aumenta molte volte all’interno dell’area dei nostri paesi ma spesso trabocca pure dai loro confini. Il carattere imperioso delle necessità umane fondamentali è alla radice di tali spostamenti. Povertà e disuguaglianza, esclusione e emarginazione, sembrano essere endemiche. Avvertiamo anche una crescente preoccupazione davanti alla sfida di liberare dalla povertà i popoli che in essa sono immersi. Davanti a noi si presenta una quantità infinita di privazioni e carenze. Urge sempre più trovare strade che aiutino lo sviluppo umano e sociale. Comprendiamo che bisogna affrontare la violazione del diritto di tutti di vivere una vita attiva e degna in un contesto di libertà, uguaglianza di opportunità e progresso sociale. Bisogna cercare i mezzi perché tutti abbiano la possibilità di realizzare una “vita degna”.
La nostra esperienza ci dice anche che la maggior parte di quelli che vivono l’esodo migratorio, non solo non si integrano nei nuclei urbani ai quali approdano ma finiscono emarginati nelle periferie delle grandi città, sommandosi alle preesistenti popolazioni che vivono in modo precario: bidonville, favelas, villas miseria… perpetuando una esclusione che li avvolge in situazioni di “ingiusta privazione”, sempre più lontani da uno sviluppo umano e sociale.
Le condizioni di vita di quelle popolazioni emarginate sono segnate dalla mancanza di alloggi e dall’inadeguatezza degli spazi, dall’insalubrità dei luoghi, dall’assenza di assistenza sanitaria perché non si è assicurati, dalla mancanza di scuole, dalle carenze di servizi minimi: elettricità, acqua corrente, gas, ecc…, scarsa è anche la protezione e la sicurezza, l’assistenza sociale, mentre i lavori sono precari (impieghi a termine, sussidi che generano assistenzialismo), cresce la disoccupazione e l’inattività forzata, i redditi familiari sono insufficienti per il mantenimento di una famiglia.
Questa situazione di penuria ha raggiunto negli ultimi cinque anni ulteriori settori della popolazione del mio paese che prima avevano altri livelli socioeconomici.
La Conferenza Episcopale l’ha chiamato il “debito sociale argentino”.
Il Dipartimento di Ricerca Istituzionale dipendente dall’Istituto per l’Integrazione del Sapere della Pontificia Università Cattolica Argentina, il cui obbiettivo è stabilire nuovi rapporti tra filosofia, teologia e scienza, è andata incontro a queste realtà, creando un programma di investigazione sul “debito sociale argentino”.
“Il concetto di debito sociale abbraccia nel suo significato quelle situazioni d’ingiustizia che colpiscono ampi settori della popolazione, che non si limitano alle dimensioni strettamente economiche ma che si manifestano nel fatto di vedere pregiudicate le possibilità del uso ragionevole ed equo dei diritti, condizionando la partecipazione responsabile delle persone alla costruzione del bene comune”.
Partendo di questa definizione si è creato il cosiddetto Barometro del Debito Sociale Argentino, come strumento centrale di analisi della realtà. Le inchieste e i lavori sul terreno hanno prodotto pubblicazioni annuali che mostrano il livello d’incidenza delle privazioni e delle carenze che colpiscono le fasce più deboli della società, e anche la spaccatura che si osserva in base alla stratificazione socio-territoriale utilizzata. Così vengono identificate secondo il loro livello le situazioni di rischio o vulnerabilità della popolazione studiata.
Le edizioni del citato Barometro dal 2003 in poi sono diventati strumenti d’informazione e documentazione per quelli che desiderano impegnarsi, sia in ambito ecclesiale che politico e imprenditoriale, nelle aree dello sviluppo umano e sociale.
L’architetto Jorge Mario Jauregui, residente in Brasile, dove ha realizzato attività di urbanizzazione di favelas, a richiesta di membri del Corpo dei rappresentanti della Villa 31 di Buenos Aires, ha proposto nel 2003 uno studio per l’urbanizzazione complessiva della Villa. Con lo scopo d’inserirla nel tessuto urbano e contribuire all’integrazione dei suoi abitanti nella città, lo studio prevedeva spazi pubblici, complementi urbani, infrastrutture, accessi, la pavimentazione di strade e piazze, lo sviluppo della rete viaria esistente tramite nuove connessioni, il recupero della cappella costruita dal P. Carlos Mujica (assassinato nel 1973, la cui azione pastorale si è sviluppata per anni in quel luogo) con la creazione di una piazza, il rimboschimento generale dell’area, illuminazione pubblica e collegamento con la vicina autostrada. Il progetto aveva come fine l’inclusione di quel settore emarginato, ma non si è realizzato e l’esclusione rimane. Iniziative simili, che sono improrogabili se si vuole raggiungere la pace sociale, di cui sentiamo l’urgenza, esigono sforzi, continuità, perseveranza e mezzi economici che devono prolungarsi nel tempo per raggiungere successi tangibili.
Attualmente esistono e si stanno moltiplicando le associazioni che sostengono le donne nelle comunità rurali, affinché, attraverso la produzione artigianale autoctona ottengano il recupero della propria identità culturale, e insieme si inseriscano sempre più nella propria regione senza abbandonare i luoghi di origine, illusi dal miraggio dell’emigrazione come unica via d’uscita.
In altri paesi della regione, come Ecuador e Brasile, si sono sviluppati programmi di aiuto ai produttori in situazione di povertà. Tali programmi rivolgono la loro attenzione al benessere sociale ed economico, così come alla protezione dell’ambiente “senza massimizzare il guadagno a loro discapito”. Tutto il processo organizzativo e produttivo viene monitorato, in vista di un consumo responsabile e di un commercio equo.
Un esempio ammirevole è “Adobe”, associazione senza fini di lucro, che da oltre 5 anni sta portando avanti nelle montagne della zona quechua della provincia di Santiago del Estero (centro nord della repubblica argentina) un progetto di riscoperta dei tessuti tradizionali realizzati con gli antichi telai orizzontali, detti “telai gesuitici”, che hanno origini precolombiane e creole. Ci fu un momento in cui questo artigianato locale sembrava sul punto di scomparire. “Adobe” ha scovato nelle loro arcaiche abitazioni, perse tra i boschi decimati, tre anziane tessitrici. Ha creato una scuola di tessitura, col proposito di recuperare tecniche e motivi tipici, a cui si sono iscritte giovanissime donne, alcune delle quali adolescenti. Riscoprire la dignità e il valore di quel lavoro, i cui prodotti hanno incontrato un mercato insospettabile per le artigiane, dalla Fiera del mobile di Milano a Rosario di Santa Fe nella stessa provincia, ha rafforzato in quella popolazione femminile la convinzione che l’opera delle loro mani, realizzata in ambito familiare, ha un’eccellente qualità in sé. Sono le stesse tessitrici e filatrici, riunite in cooperativa, a controllare la qualità dei loro prodotti e la successiva commercializzazione.
“Adobe” promuove anche il rimboschimento della foresta decimata dallo sfruttamento del legname. Gli alberi più pregiati, quebracho (albero argentino degli anacardiacei), carrubo e chañar (della famiglia dei papilionacei) stanno ripopolando una riserva di 18 ettari. Gli uomini di questa comunità contadina si occupano attualmente di una piantagione di olivi, della coltivazione del cappero e dei fichi, nelle cui piante vive la cocciniglia, insetto usato per tingere la lana e anche per usi cosmetici e di altro tipo. Professori e tecnici della facoltà di scienze agrarie dell’Università di Santiago del Estero collaborano assistendo il progetto. Un programma pilota come questo aiuta la gente a radicarsi nel proprio luogo di origine, a provvedere alle proprie necessità economiche più urgenti, a identificarsi con la propria cultura.
Molti anni fa, sentii raccontare a Mons. Samuel Ruiz, vescovo emerito del Chiapas, che quando entrò come nuovo vescovo nel 1960 nella sua diocesi nell’istmo di Tehuantenpec, e vide i suoi piccoli indios scalzi, pensò che doveva procurargli delle scarpe, ma poi col tempo si rese conto che doveva lasciarli scalzi, accompagnandoli però perché avessero una vita degna attraverso uno sviluppo che sentissero appartenere proprio a loro, e per questo era necessario mettere al servizio di quei fratelli tutte le tecniche e le infrastrutture necessarie, senza invadere né distruggere la loro cultura. Don Samuel Ruiz parlava da vero costruttore di pace.
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