Director of the Catholic Academy of Berlin, Germany
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Usanze e leggi, etica, morale, riti e liturgia ci aiutano a sopportare la vita e forse anche la morte, ma non è immotivata la supposizione che queste conquiste culturali mostrano i loro limiti quando si avvicina l’ora della morte. Grandi aiuti, di grande valore nella vita, vengono lasciati dietro di sé, quando il morente inizia l’ultimo viaggio, e forse nel morire e nella morte si mostra la pienezza della vita e in modo particolare si percepisce la presenza divina.
Mio nonno, strettamente cattolico, pregava quotidianamente per una “buona ora della morte”. Da bambino ascoltavo questa preghiera con grande rispetto e mi immaginavo la sua morte circondato dalla famiglia e coi sacramenti della chiesa. Mio nonno era un „Ostfriese“ (veniva dalla frisia orientale) e come tutti gli Ostfriesen amava bere il té. Quando una mattina non si sentí bene pregó sua moglie di portargli una tazza di té. Quando lei tornó per portargliela era morto. Senza lunga malattia, senza i sacramenti della chiesa. È questa una buona ora della morte? Meglio di quelle precedute da malattia e sofferenza?
Qualunque sia una cultura della vita, essa farebbe bene a lasciarsi preparare per questa ultima fase della vita; questo rende umili e modesti, protegge dalla superbia e conduce in quel luogo dove consolazione, soccorso, preoccupazione e morte si uniscono per una trasfigurazione che conduce allo stupore, ci spaventa, ci fa una paura naturale ed é qualcosa che fuggiamo sempre.
Quello che voglio provare a fare é cercare di capire meglio questa unione e quello che noi cristiani possiamo dire su questo.
Un conosciuto scienziato politico e sociologo, Peter Gross, ha scritto un libro commovente sulla morte di sua moglie, Ursula. In questo libro sulla forza dell’addio, sull’amore nell’assenza, sulla nostalgia della vita si trovano queste frasi:
Al cospetto della morte ci siamo guardati come non ci eravamo mai guardati.
Sul letto di morte Ursula provava ad afferrare qualcosa con le sue braccia indebolite. Galleggiavano come senza gravitá. Si calmavano quando trovavano delle mani che la sostenevano.
Mani irrequiete che cercano sostegno, uno sguardo fin ora sconosciuto, un guardarsi come regalo reciproco. Queste mani in ricerca e questa profonda esperienza di amanti di guardarsi nell’ora della morte sono fenomeni al di là dell’etica, della morale, dei riti e della liturgia.
Nel libro “La morte di Ivan Illic” Leo Tolstoj descrive la vita dell’impiegato di tribunale Ivan Illic e la sua morte precoce all’età di 45 anni. In modo denso e drammatico sono descritte la paura esistenziale, la paura dei dolori nella morte e anche l’impotenza e soprattutto il ravvedimento di non aver vissuto una vita piena di senso.
Per tutti quei tre giorni, dopo i quali il tempo doveva cessare per lui, ebbe sempre la sensazione di dibattersi dentro a quel sacco nero, in cui lo spingeva una forza invisibile, irresistibile. Si dibatteva come si dibatte fra le mani del boia un condannato a morte, sapendo che non può sfuggirgli: e ad ogni minuto sentiva che, malgrado tutti gli sforzi di quella lotta, si faceva sempre più vicino, più vicino a quel che era il suo spavento. Sentiva che le sue torture venivano da quell'affondare in quel buco nero, e soffriva specialmente per non poter affondarvi del tutto. E gl'impediva di affondarvi del tutto la convinzione che la sua vita era stata buona. Questa giustificazione della sua vita lo tratteneva, non lo lasciava precipitar giù, e più di tutto lo tormentava.
E` la giustificazione della propria vita che trattiene il morente Ivan. E solo quando la mano, disperata nella lotta della morte, trova la testa di suo figlio e viene baciata da lui, può morire.
Ciò accadde alla fine del terzo giorno, due ore prima della sua morte. In quel preciso momento suo figlio entrò pian piano nella camera e si avvicinò al suo letto. Il moribondo urlava sempre disperatamente e agitava le braccia. Una mano gli cadde sulla testa del fanciullo. Il fanciullo la prese, se la strinse alle labbra e cominciò a piangere. In quel punto Ivan Ilijc si sentiva precipitare giù e vedeva la luce e gli si rivelava che la sua vita non era stata quel che doveva essere, ma che ancora tutto si poteva riparare…
Il contatto tra mano e testa, il bacio del figlio scioglie il nodo della lotta con la morte, il crampo della giustificazione di una vita che non possiamo giustificare...
Invece della morte c'era la luce.
— Ecco che cos'è! — proruppe a un tratto ad alta voce.
— Che gioia!
Tutto ciò accadde in un istante, ma il significato di quell'istante non poteva più mutare. Per i presenti l'agonia si protrasse ancora due ore. Si sentiva il suo rantolo, il suo corpo sfinito aveva dei sussulti. Poi il rantolo si fece sempre meno frequente.
Qui il morente ha superato i viventi e ha lasciato dietro di sé la morale, l’etica, i riti, le liturgie e tutte le giustificazioni dietro di sé. Là dove gli uomini intorno vedono ormai solo rantoli e soffocamento il morente ha già raggiunto la luce e si è sciolto il nodo della sua vita.
Diversa è la morte del principe di Salina nel romanzo “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Il principe – cioè Il gattopardo – racconta la storia della famiglia Salina, un romanzo malinconico, sotto il sole siciliano, un testo sul tramandarsi tradizioni e sulla vita, stanchezza e violenza, amore e passione, eros e morte e sul tramonto delle famiglie nelle guerre di unificazione dell’Italia del diciannovesimo secolo. Il segreto prezioso della vita in tutta la sua spaventosa e stupefacente grandezza si tende come un arco su tutto il libro, sotto lo sguardo della “Bella” che aiuta. In primo luogo questa è Maria.
L’inizio di questo romanzo è uno dei più belli che conosco. Nunc et in hora mortis nostrae. Amen. Maria, la “bella” che aiuta appare all’inizio del romanzo ma anche alla fine, nell’ora della morte. Anche qui, come in Tolstoj, il bilancio, la giustificazione, ma più aperta e con più stupore.Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici: eccoli. Due settimane prima del suo matrimonio, sei settimane dopo; mezz’ora in occasione della nascita di Paolo, quando senti l’orgoglio di aver prolungato di un rametto l’albero di casa Salina. … molte ore in osservatorio … ma queste ore potevano davvero esser collocate nell’attivo della vita? Non erano forse un’elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie? Non importava, c’erano state.
… Vi erano le prime ore dei suoi ritorni a Donnafugata, il senso di tradizione e di perennità espresso in pietra ed in acqua, il tempo congelato; lo schioppettare allegro di alcune cacce, il massacro affettuoso dei conigli e delle pernici, alcune buone risate con Tumeo, alcuni minuti di compunzione al convento fra l’odore di muffa e di confetture. Vi era altro? Sì, vi era altro: ma erano di già pepite miste a terra: i momenti sodisfatti nei quali aveva dato risposte taglienti agli sciocchi, la contentezza provata quando si era accorto che nella bellezza e nel carattere di Concetta si perpetuava una vera Salina; qualche momento di foga amorosa; la sorpresa nel ricevere la lettera di Arago che spontaneamente si congratulava per l’esattezza dei difficili calcoli relativi alla cometa di Huxley. E perché no? L’esaltazione pubblica quando aveva ricevuto la medaglia in Sorbona, la sensazione delicata di alcune
sete di cravatte, l’odore di alcuni cuoi macerati, l’aspetto ridente, l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate, quella intravista ancora ieri alla stazione di Catania, mescolata alla folla col suo vestito marrone da viaggio e i guanti di camoscio che era sembrata cercare il suo volto disfatto dal di fuori dello scompartimento insudiciato. Che gridio di folla. “Panini gravidi!” “Il Corriere dell’Isola!” E poi quell’anfanare del treno stanco senza fiato... E quell’atroce sole all’arrivo, quei sorrisi bugiardi, l’eromper via delle cateratte...
Il principe muore al cospetto della sua famiglia, si è confessato, ma soprattutto ha guardato stupefatto alla sua vita, a quei momenti felici che la morte non puó toglierci.
Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappellino di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliosa avvenenza del volto. Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari.
Come é diversa la morte Maurice Halbwachs nel campo di concentramento-come la descrive il suo compagno Jorge Semprun e la interpreta Paul Riceur:
Sorrideva, morente, il suo sguardo su di me, come un fratello… Avevo preso la mano di Halbwachs che non aveva avuto la forza di aprire gli occhi. Avevo sentito la risposta nelle sue dita, una leggera pressione, un messaggio appena percepibile. … e qui la testimonianza dell’affiorare dell’essenziale: negli occhi una fiamma di dignità, di un’umanità vinta ma del tutto intatta. La luce immortale di uno sguardo, che riconosce l’avvicinarsi della morte, che sa cosa succede, che la conosce, che calcola I rischi, che è libero, disinvolto.
Nello spavento stupore del morente si può mostrare il valore della vita. Per il morente e per noi. Nella lotta con la morte appare l’essenziale, appare la fonte della vita come scrive Riceur nelle memorie sulla morte di sua moglie. C’è una pienezza della vita che si riconosce solo nell’addio, quando abbiamo nostalgia di una vita piena e quando abbiamo la forza di tenerci per mano e guardare in faccia alla morte. Bisogna proccuparsi di proteggere e mantenere la santità di questo addio.
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