MOAS è un’organizzazione umanitaria giovane, siamo nati nel 2014 e per spiegarvi come è nata devo riportarvi ad un anno prima.
Nel 2013 mentre mi trovavo in vacanza con la mia famiglia nel Mar Mediterraneo, la migrazione è diventata una realtà tangibile quando nel tratto di mare fra Lampedusa e la Tunisia abbiamo visto fra le acque una giacca beige, probabilmente appartenuta a qualcuno che aveva tentato la traversata.
L’appello di Papa Francesco contro la globalizzazione dell’indifferenza e il terribile naufragio del 3 Ottobre 2013 a poche miglia da Lampedusa, dove 368 persone persero la vita, ci spinsero ad agire.
Così abbiamo deciso di fondare il MOAS (Migrant Offshore Aid Station), una missione dedicata al salvataggio di vite umane in mare. MOAS è nato come un progetto pionieristico e rispondeva a una esigenza pratica: le persone morivano in mare, ma tutti gli occhi erano puntati sulle banchine dei porti dove sbarcavano i migranti tratti in salvo
Come imprenditori, avevamo le competenze e le risorse per affrontare questa sfida.
Come esseri umani, avevamo un obbligo etico e morale ad agire.
Come famiglia, volevamo aiutare altre famiglie costrette a rischiare la vita affidandosi a trafficanti senza scrupoli pur di salvarsi e dare un futuro ai propri figli.
Dato che le persone morivano in mare, avevamo bisogno di una nave.
In Virginia abbiamo trovato la Phoenix, una imbarcazione di 40m che abbiamo interamente riadattato ed equipaggiato con due lance di salvataggio, giubbotti salvagente, coperte, acqua, cibo, una clinica per il primo soccorso e tutto il necessario per assistere le persone salvate.
Convinti dell’uso positivo della tecnologia, abbiamo deciso di usare due droni che sono diventati gli occhi del MOAS per individuare le persone in difficoltà. Abbiamo costruito una piattaforma per il decollo e l’atterraggio dei droni che ha anche notevolmente aumentato la nostra capacità di accogliere le persone tratte in salvo.
Quest’anno per la missione partita ad Aprile 2017 abbiamo usato un aereo con a bordo la stessa tecnologia per localizzare persone e imbarcazioni in difficoltà. Da Aprile all’ultima missione di Agosto abbiamo salvato ed assistito 7.826 vite umane, di cui 2.820 solo ad Aprile. Durante la settimana di Pasqua abbiamo ospitato a bordo Padre Regamy, della diocesi di Colonia, inviato del Cardinale Woelki, Arcivescovo di Colonia, e per tutti noi è stato un enorme sollievo poter avere il suo conforto nei momenti più drammatici. Insieme abbiamo celebrato la messa di Pasqua a bordo della nave.
La prima missione da Agosto a Ottobre 2014 dove abbiamo salvato 3.000 persone è stata finanziata dalla mia famiglia. A Novembre MOAS ha lanciato delle campagne di crowdfunding che hanno mobilitato donatori da tutto il mondo, diventando una organizzazione internazionale.
Fra il Novembre 2015 e il Marzo 2016 abbiamo usato una seconda nave per effettuare i salvataggi nell’Egeo prima che entrasse in vigore l’accordo UE-Turchia. Dopo l’accordo, in seguito alla netta diminuzione degli attraversamenti su questa rotta abbiamo preferito di concentrare tutta l’attenzione nell’area dove c’era più bisogno: quella del Mediterraneo Centrale.
Osservando lo scenario globale attuale, è facile comprendere che il numero di persone che fuggono dai propri paesi d’origine è aumentato esponenzialmente, facendo fiorire i traffici di reti criminali. In questi anni col Moas abbiamo portato assistenza in mare, rimanendo un faro di speranza per coloro che continuano a attraversarlo come unica via di fuga.
In media dal 2014 fino al Giugno 2017 il numero di persone ammassate su imbarcazioni fatiscenti era quasi raddoppiato così come i casi di partenze a sciame dalle coste libiche, mentre la qualità dei barconi di legno e dei gommoni è peggiorata al punto che spesso riescono a stento a raggiungere le acque internazionali. In alcuni casi, le imbarcazioni affondano prima ancora di poter essere assistite o vengono intercettate dalla Guardia Costiera Libica e riportate indietro nei centri di detenzione sparsi nel paese.
Tutti questi fattori pongono enormi sfide fisiche e morali al nostro equipaggio MOAS che, dopo aver lottato contro il tempo in mare, deve assistere le persone salvate fino al porto di sbarco.
Anche dal punto di vista medico c’è una escalation di orrori che lasciano cicatrici nel corpo e nell’anima. Sempre più frequenti sono le ferite da arma da fuoco oltre alle ustioni dovute alla miscela di acqua salata e carburante di pessima qualità. Queste ferite ormai sono state soprannominate “malattia da gommone” proprio perché vengono riscontrate sulle persone salvate dai gommoni, soprattutto le donne che spesso sono al centro.
Inoltre, sono all’ordine del giorno i racconti delle torture, dei lavori forzati e degli abusi compiuti senza alcun rispetto per i diritti umani fondamentali, le donne e i bambini sono le vittime più fragili. Spesso le donne sono oggetto di abusi sessuali difficili da denunciare e alcune volte scoprono di essere incinte durante i controlli medici a bordo.
MOAS è impegnata anche nell’apertura di canali sicuri e legali dalla Libia per consentire ai gruppi più vulnerabili di persone di giungere in Europa in sicurezza e mettere così fine al mortale business del traffico di esseri umani e ai flussi migratori fuori controllo. I corridoi umanitari, come provato dalla Comunità di Sant’Egidio, permetterebbero anche di gestire meglio le politiche di redistribuzione fra gli Stati Membri, agevolando quei processi di accoglienza e integrazione che porterebbero alla creazione della nostra società condivisa.
Attualmente sono troppe le domande senza risposta e troppi i dubbi su chi è intrappolato o viene riportato in Libia nei centri di detenzione. I terribili racconti dei sopravvissuti descrivono un inferno di abusi, violenze, torture, rapimenti ed estorsioni.
La situazione in Libia al momento è incerta. MOAS non ha voluto diventare parte di una strategia in cui nessuno presta attenzione a chi ha bisogno di aiuto, ma si concentra solo sull’impedire che le persone arrivino sulle coste europee senza alcun riguardo per il loro destino mentre sono intrappolati dall’altra parte del mare.
Per questo la scorsa settimana abbiamo fermato la missione nel Mediterraneo.
Questo non vuol dire che MOAS si arrenderà.
Ma porteremo speranza nelle aree dove serve maggiormente
ANCORA UNA VOLTA abbiamo deciso di reagire all’appello lanciato da Papa Francesco alla fine di Agosto per proteggere i Rohingya, una minoranza musulmana definita dalle NU la più perseguitata al mondo.
Il nostro obiettivo è sensibilizzare in merito agli abusi dei diritti umani che colpiscono direttamente i nostri fratelli e sorelle Rohingya e dar loro assistenza umanitaria.
Alla luce della crescente instabilità nel Mediterraneo e della catastrofe umanitaria che colpisce i Rohingya, nel terzo anniversario dalla creazione di MOAS abbiamo deciso di riposizionare la nostra nave, Phoenix, nel Golfo del Bengala e fornire aiuti ed assistenza umanitaria nel Bangladesh.
Fin dallo scorso anno MOAS sta monitorando questa situazione in Asia e dopo aver visitato alcuni centri dove vivono i Rohingya e averli intervistati abbiamo reso pubblico un report che potrete trovare sul sito della nostra organizzazione sorella XChange. Sulla base del know-how sviluppato, abbiamo deciso che è arrivato il momento di agire e tutelare una minoranza dimenticata in un’area remota. Al momento stiamo cercando partner e ONG attive in Bangladesh per portare avanti il nostro progetto.
Con coraggio e misericordia siamo impegnati a metterci in prima linea per non rimanere indifferenti alla sofferenza di chi scappa da situazioni insostenibili. Se non si eliminano le cause che costringono alla migrazione, le rotte muteranno, diventando più pericolose e facendo aumentare il bilancio dei morti.
Proprio come se avessimo in mano un palloncino gonfiato d’aria: strozzandolo da un lato, l’aria si sposta verso un altro, ma sicuramente non sparisce. Nel peggiore dei casi esplode, mietendo centinaia di vittime.
Dalla creazione del MOAS abbiamo salvato ed assistito oltre 40mila bambini, donne e uomini e siamo determinati a mantenere viva la speranza dove serve maggiormente.
Perché nessuno merita di morire in mare. Ma nemmeno sulla terraferma.
Ancora una volta, ci impegniamo ad essere in prima linea guidati dal coraggio, dalla misericordia e dalla fratellanza universale che ci impedisce di restare a guardare mentre soffiano questi venti xenofobi alimentati dai media.
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