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11 Septiembre 2017 09:30 | Rathaus Muenster - Rathausfestsaal

Intervento di Agostino Giovagnoli



Agostino Giovagnoli


Comunidad de Sant'Egidio

Per molti europei, l’Unione europea è una burocrazia oscura ed opprimente; un potere lontano che impedisce agli Stati nazionali di sostenere le loro economie e di ampliare il welfare. Queste opinioni ed altre simili - spesso molto fantasiose - hanno tutte un elemento comune: esprimono una visione particolare, locale, frammentaria.

Nel mondo globale in cui viviamo e nello spaesamento che questo produce vince la “cultura del frammento”, come ha spiegato più volte Andrea Riccardi. La globalizzazione entra dentro la vita di ciascuno, invade il nostro ambiente di vita, ci bombarda di sollecitazioni. Tutto ciò ci disorienta, ci spaventa, ci angoscia. Lo scorso anno ad Assisi, durante l’incontro di Uomini e Religioni, Zygmunt Bauman ci ricordava che – come i nostri antenati, gli uomini primitivi – anche noi siamo abituati a vivere entro comunità umane con non più di 250 individui. Non abbiamo ancora imparato a gestire in modo equilibrato il numero molto più alto di relazioni umane cui la società liquida ci obbliga. Davanti ad orizzonti tanto grandi, gli individui si ripiegano su sé stessi, si chiudono nel loro microcosmo, si rassegnano a non capire e a subire ciò che accade intorno a loro. Nutrono una visione del proprio interesse molto parziale e totalmente appiattita sul presente ecc.   

Per l’uomo o la donna del frammento l’Unione europea è solo una delle tante facce di una globalizzazione che mette soprattutto paura. In realtà è vero l’opposto: la collaborazione tra i paesi europei è una risposta alle sfide della globalizzazione di cui tutti beneficiano. Ma si tratta di una costruzione culturale, giuridica, politica, economica ecc. molto complessa di cui fatichiamo a comprendere il senso, lo scopo, l’utilità. Si parla spesso di un deficit di democraticità delle istituzioni europee: è vero, c’è bisogno di più democrazia e di più partecipazione nell’Unione europea. Ma il problema non è solo questo. C’è un malessere più profondo. Se vogliamo assicurare un futuro all’Europa dobbiamo uscire dalla cultura del frammento, abbandonare la logica dell’interesse parziale e immediato, cercare di abbracciare la costruzione europea nel suo complesso o, almeno, chiederci qual è il suo senso di fondo. 

Spesso la storia dell’integrazione europea è stata rappresentata come una storia di tentativi non riusciti o addirittura di fallimenti. Lo ha fatto recentemente anche lo storico anglosassone Nial Ferguson. Ma non è così. La storia dell’Unione europea è una grande storia. Se da settant’anni i paesi dell’Unione europea vivono in pace dopo secoli di guerre, questo è un grande successo. Se hanno costruito un grande mercato dove circolano liberamente persone, capitali e merci, questo è un grande successo. Se hanno realizzato una grande area dove si usa la stessa moneta, questo è un grande successo. Già cinquant’anni fa, il primo ministro cinese Zhou En Lai chiedeva a tutti i politici europei di spiegargli il grande successo della Comunità economica europea (allora si chiamava così). E oggi nel mondo, dall’ Asia all’Africa all’America Latina, interi gruppi di Stati hanno preso l’Unione europea come un modello e cercano di imitarlo. Tutto questo è un grande successo.

Bisogna avere il coraggio di sfidare i luoghi comuni sull’Europa. Non abbiamo costruito gli Stati Uniti d’Europa perché in questo continente c’era bisogno di realizzare qualcosa di nuovo e di diverso rispetto a tanti modelli precedenti di Stato federale o confederale, dagli Stati Uniti d’America alla Svizzera. C’era bisogno di costruire una Comunità di Stati nazionali completamente nuova. Oggi l’abbiamo. E’ perfetta? Certamente no. Ci sono tante cose da cambiare? Certamente sì. Ma il punto è: dobbiamo andare avanti, accelerando il passo, o tornare indietro, disfacendo tutto? 

Quando i “padri fondatori” cominciarono il cammino dell’unità europea dovettero affrontare difficoltà enormi. L’unità europea non è il naturale punto d’arrivo della storia secolare dell’Europa. La comune identità culturale che lega gli europei – fondendo l’eredità dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam, insieme al pensiero illuministico e laico - è indubbiamente un bene prezioso. Ma tale identità comune non cancella il pluralismo delle diversità storiche, nazionali, sociali. La lunga storia dei popoli europei non li spinge naturalmente verso l’unità ma verso la divisione, non verso la pace ma verso la guerra. Proprio in Westfalia, nel 1648, si sono poste le fondamenta di un sistema internazionale basato sulla conflittualità e l’instabilità. Dai molti può venire l’unità ma solo se vince la volontà di vivere insieme.

Dopo la Seconda guerra mondiale questa volontà c’è stata. Il processo di integrazione europeo è nato da una svolta coraggiosa rispetto a tutta la storia precedente. E’ stata preparata dalla terribile esperienza dei totalitarismi e in particolare della Shoah. La tragedia della guerra, inoltre, ha lasciato eredità pesantissime non solo per i vinti ma anche per i vincitori. Ma anche se indebolito il sentimento nazionalista era ancora molto forte. In Italia pesava ancora l’eredità del fascismo, in Francia il legame con una lunga storia coloniale, la Germania non aveva ancora fatto i conti con il passato. I padri fondatori dell’Europa scelsero di contrastarlo. Robert Schuman, Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer provenivano tutti e tre da zone di frontiera. Tutt’ e tre sapevano bene che i nazionalismi e le guerre distruggono la convivenza tra uomini e donne di nazionalità, culture, cittadinanze diverse.

Mossi da tante dolorose esperienze ma anche animati da una sincera speranza cristiana, i padri fondatori dell’Europa colsero una occasione storica: quella offerta dal progetto di costruire un grande ordine economico internazionale. Gli Stati Uniti, infatti, erano convinti che la guerra fosse scoppiata per la rivalità economica che contrapponeva tra loro gli Stati europei. Per stabilizzare la pace, perciò, proposero di sviluppare una rete di scambi economici e commerciali più estesa possibile. Con gli accordi di Bretton Woods del 1944 e la parità dollaro-oro vennero poste le premesse per una “globalizzazione ben regolata”. Nel 1947 lo scoppio della guerra fredda ha limitato questo progetto ai paesi occidentali. Inoltre, non era ancora cominciato lo sviluppo economico dell’Asia e dell’Africa. Malgrado questi limiti, tuttavia, la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale ha costituito una novità importante e ha offerto all’Europa un’occasione straordinaria: il Mercato comune europeo – nucleo originario dell’attuale Unione europea – è nato nel 1957 grazie alla “globalizzazione ben regolata”.

Dopo trent’anni di grande sviluppo, però, qualcosa si è rotto. Nel 1971 gli Stati Uniti hanno abbandonato il ruolo di garanti dell’ordine economico internazionale e con lo shock petrolifero del 1973 è cominciata una “globalizzazione selvaggia”. Sia pure faticosamente, gli europei hanno scelto di rispondere insieme a queste nuove sfide: con il piano Delors e l’adozione di una moneta, unica, l’euro, hanno garantito la stabilità economica dell’Europa ed avviato una collaborazione più ampia anche su terreni diversi da quello economico.

Oggi però siamo entrati in una terza fase della storia dell’integrazione europea, perché il mondo intero è entrato in una nuova fase della globalizzazione iniziata nel 1945. Dal gruppo del G7 che raccoglieva le più grandi economie occidentali (più il Giappone) si è passati al G20 che coinvolge anche i BRIC e i grandi paesi emergenti. Come le precedenti, anche la terza ondata della globalizzazione pone sfide difficili, ma offre anche all’Europa un’occasione storica. E’ il caso dei fenomeni migratori che coinvolgono ormai decine di milioni di persone in tutto il mondo. Per l’Europa si tratta di numeri relativamente ristretti: i rifugiati accolti in Libano dalla vicina Siria o i migranti accolti dai paesi africani sono molto più numerosi di quelli che arrivano in Europa. Eppure la società europea fatica a misurarsi con questa sfida che non è solo economica ma anche sociale, culturale e morale. L’incapacità di accogliere e integrare i nuovi europei -  ma ci sono eccezioni e la Germania è una di queste – mette in discussione la stessa identità europea, come continente della pace e dei diritti. Il diverso atteggiamento dell’Europa occidentale e dei paesi dell’Europa orientale - stretti nel patto di Vinegrad – incrina inoltre un’unità conquistata da poco, dopo la fine della guerra fredda. E così via.   

Come tutte le sfide aperte non sappiamo come andrà a finire. Non sappiamo cioè se l’Europa saprà raccogliere nuovamente la sfida della globalizzazione per rilanciare il suo cammino comune. E’ più che mai attuale l’appello lanciato da papa Francesco, ricevendo il premio Carlomagno. “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”. Non si tratta di evocare in astratto le radici cristiane dell’Europa, ha spiegato Francesco, ma di inverarle oggi in scelte concrete di solidarietà e di accoglienza. E’ molto significativo che in questi giorni a Munster uomini e donne di religioni diverse, europei e non europei si ritrovino insieme per parlare dell’Europa e della sua unità. L’Europa, infatti, non è patrimonio solo degli europei ma di tutta l’umanità.         

 


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