Già Rabbino Capo di Irlanda, AJC, Israele
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La visione della giustizia sociale nella Bibbia ebraica proviene dagli insegnamenti sulla santità della vita umana e la sua inalienabile dignità.
Nelle parole del Rabbi Tanhuma, se maledici o disprezzi qualcuno “sappi chi è colui che disprezzi o maledici, poiché Egli lo creò ad immagine di Dio,” (Genesi Rabbah 24:7).
La Mishnah nel trattato Sinedrio 4:5 dichiara quindi che ogni persona è un mondo intero e unico (e perciò “colui che distrugge una vita umana è come se avesse distrutto il mondo intero e colui che salva una vita umana è come se salvasse il mondo intero”). Per la stessa ragione, la Mishnah afferma che nessuno deve considerare se stesso superiore agli altri!
Poiché Dio è misericordioso, la Torah insegna che è come se fosse “di parte”, particolarmente orientato verso chi è vulnerabile (vedi Esodo 22:26). Proprio perché siamo esortati a riaffermare la dignità di tutti, siamo anche chiamati a prestare particolare attenzione e sollecitudine nei confronti di coloro la cui dignità è vulnerabile e che sono messi ai margini – il povero, lo straniero, la vedova e l’orfano.
La Torah è piena di comandamenti sulle nostre responsabilità morali verso coloro che nella società sono più indifesi. (Il Talmud richiama l’attenzione sul fatto che nel Pentateuco si ribadisce per 36 volte il dovere di prendersi cura degli stranieri/ospiti di passaggio, più spesso di qualsiasi altro comandamento).
Il Giudaismo richiede dunque ai suoi fedeli di contribuire ad azioni caritatevoli (riassunte nella parola ebraica “tzedakah”) almeno nella misura di un decimo del proprio reddito (ma non più di un quinto, per evitare di diventare a propria volta dipendenti dagli altri).
Nel contesto dell’economia agricola dell’epoca, la Bibbia ebraica richiede a tutti i contadini (cioè a tutti i membri della comunità) di evitare di mietere gli angoli dei campi e anche di lasciare la spigolatura per il povero, l’orfano, la vedova e lo straniero.
Inoltre, nella Bibbia le decime obbligatorie non sono destinate solo al rendimento di grazie e al Tempio, ma anche a sostenere i bisognosi.
Alla base di queste prescrizioni non vi è, tuttavia, solamente l’idea della nostra responsabilità sociale verso gli altri e in maniera particolare verso i più vulnerabili, ma anche una profonda comprensione dell’essenza stessa della proprietà privata.
Questo concetto viene definito in particolar modo in relazione all’anno sabbatico, che può servire come modello, o quantomeno ispirazione, per la responsabilità sociale e collettiva.
Si basa sulla dichiarazione del Levitico 25:23: “Perché la terra è mia (dice il Signore) e voi siete ospiti e usufruttuari insieme a me”. Gli esseri umani non sono quindi nulla più che inquilini nella terra di Dio. I doni materiali ci sono stati concessi affinché li custodissimo e utilizzassimo per il bene comune.
Lo scopo di questo senso di transitorietà e vulnerabilità dell’essere umano è inoltre quello di animare la nostra condotta morale, il che nell’anno sabbatico significava tre cose.
Prima di tutto, nell’anno settimo, la terra deve rimanere incolta (Esodo 23:10) per recuperare la sua naturale vitalità. Come risultato, la proprietà della terra in qualsiasi senso di utilizzo esclusivo viene a cadere per quell’anno. Si afferma l’idea che siamo tutti passeggeri nel mondo di Dio (Levitico 25 v.23), e che la terra e i suoi prodotti sono a disposizione di tutti, specialmente dei poveri. Per quanto riguarda la terra infatti, che nella società agricola determina lo stato sociale, l’anno sabbatico serve a sottolineare che il povero e il ricco sono uguali davanti a Dio.
La responsabilità sociale non solo si riflette in questa pratica di lasciare la terra incolta con i suoi frutti naturali disponibili per tutti, ricchi e poveri, ma anche negli altri precetti dell’anno sabbatico, particolarmente nella cancellazione dei debiti (Deuteronomio 15).
Per comprendere queste richieste della Scrittura bisogna considerare il contesto della società agricola della Bibbia. Non era una società commerciale in cui il prestito di denaro era parte della normale vita economica. I prestiti erano piuttosto uno strumento necessario nel caso in cui un agricoltore stesse attraversando tempi difficili, avesse avuto un raccolto scarso o addirittura inesistente e, di conseguenza, avesse perso tutte le risorse che gli avrebbero potuto garantire di continuare il suo ciclo di raccolti. In tal caso, avrebbe dovuto chiedere un prestito, e la Torah incoraggia i membri della comunità a far fronte alle richieste di chi si trovasse in tali difficoltà (Deuteronomio 15:8). Il denaro andrà poi restituito al successivo raccolto buono. In questo modo il prestito era in realtà un’azione caritatevole, la Bibbia proibisce infatti di trarre guadagno dalla situazione chiedendo gli interessi. Se, tuttavia, l’agricoltore non riuscisse a superare gli ostacoli, corre il pericolo di cadere nella trappola della povertà. La Torah riconosce che questo non è solo un problema individuale ma di tutta la società, per cui utilizza l’anno sabbatico per liberare l’individuo da questa trappola. L’obbligo di liberazione dai debiti non è una scusa per essere irresponsabili, ma piuttosto un vincolo di responsabilità al fine di promuovere una società giusta assicurando un equilibrio socio-economico tra i più e i meno avvantaggiati, essenziale per il progresso e la sicurezza di quest’ultimi.
Un simile obiettivo ha anche l’obbligo di liberazione degli schiavi durante l’anno sabbatico (Esodo 21:2-6). A confronto con il precetto precedente, questo può apparire non solo irrilevante ma arcaico. Tuttavia, all’interno di questa idea ci sono alcuni messaggi profondi. Nell’antico Israele infatti un ebreo entrava nella condizione di schiavo se non aveva mezzi per provvedere al sostentamento per sé e per la propria famiglia. In questo modo, vendeva volontariamente il suo lavoro a un altro.
Tuttavia, chi manteneva uno schiavo era sottoposto a disposizioni così esigenti che il Talmud dichiara che “colui che acquista uno schiavo, (in realtà) acquista un padrone di se stesso!”
Come indicato nel libro dell’Esodo, nel caso di uno schiavo non sposato bisognava non solo provvedere a tutti i bisogni materiali fondamentali, ma anche trovargli una sposa. Comprensibilmente, nell’antico Israele, non pochi schiavi ebrei erano contenti di rimanere in quella condizione, che garantiva loro un sostentamento di base. La Bibbia prevede tuttavia che nell’anno sabbatico tutti gli schiavi siano liberati. Ma, come si legge nell’Esodo 21, “se lo schiavo semplicemente dice ‘Amo il mio padrone, non andrò via libero’ il padrone lo porterà allo stipite della porta e bucherà il suo orecchio con un punteruolo” (Esodo 21:5-6). Gli antichi sapienti chiedono, ”perché deve esser forato l’orecchio e perché sullo stipite?”
E rispondono “lo stipite sul quale Dio passò in Egitto quando liberò i figli d’Israele dalla schiavitù e l’orecchio che gli sentì dire sul Sinai ‘Poiché per me i figli di Israele sono schiavi’ e non devono essere schiavi degli schiavi; lascia loro testimoniare che l’uomo volontariamente ha rinunciato alla libertà datagli da Dio”.
Inoltre, secondo la legge giudaica, lo schiavo doveva essere in ogni caso lasciato libero nell’anno giubilare, anche se non avesse voluto!
La Bibbia stabilisce anche che il padrone/datore di lavoro precedente fornisca allo schiavo liberato, che deve ora immettersi nel mercato, i mezzi materiali necessari per potersi trovare un posto (Deuteronomio 15:14). Quest’obbligo non solo riafferma il valore della dignità dell’individuo e il concomitante valore della libertà personale, ma anche che il benessere della comunità dipende dalla capacità di fornire all’individuo i mezzi per mantenere se stesso e la propria famiglia.
Il modello dell’anno sabbatico come paradigma della promozione della giustizia sociale chiede che noi combattiamo i pericoli posti dall’arroganza umana che è alla base della cupidigia, dello sfruttamento, dell’irresponsabilità e della violenza verso gli altri.
La Torah cerca di contrastare queste tendenze, non solo con l’attenzione particolare che riserva agli elementi più deboli della società di cui si è parlato sopra, ma soprattutto attraverso la constatazione che siamo tutti vulnerabili, ospiti di passaggio nel mondo di Dio (Levitico 25 v.23). Tale consapevolezza può portarci a vivere in maniera più responsabile il rapporto con i nostri vicini, la comunità, le nazioni, l’umanità e l’ambiente.
Oggi, “fai bene facendo del bene” è diventato uno slogan diffuso per incoraggiare la filantropia aziendale.
L’etica religiosa degli insegnamenti biblici e talmudici affermerebbe piuttosto che noi “facciamo bene per poter far del bene”, poiché il benessere sociale ed economico della società è il nostro bene comune e la nostra responsabilità sociale.
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