Presidente di “Rondine, Cittadella della Pace”, Italia
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Inizio con una breve spiegazione di cosa è Rondine.
Agli inizi degli anni 80 delle macchine da Roma cominciarono ad arrivare a Rondine. In quelle auto c’erano le persone che stavano facendo nascere la Comunità di Sant’Egidio.
Rondine era un ed è un piccolo borgo della Toscana, piccolissimo, e in quegli anni vivevamo e condividevamo il sogno del Concilio Vaticano II. Va ricordato oggi: a differenza di quello che ci fanno credere, l’unica possibilità di arrivare alla felicità è credere in un sogno collettivo, non nel piccolo sogno individuale. Un sogno collettivo, grande, inclusivo, che si mescolava con i poveri che incontravamo. Erano i detenuti, erano i disabili, erano i primi immigrati. Erano i sogni di raccogliere la sfida delle guerre e coltivare la pace.
Una piccola lapide sulla facciata della chiesa di Rondine ricorda che da questo borgo, 6 giovani, nel 1917 sono partiti per la Prima Guerra Mondiale. Lo ricordiamo qui, a Sarajevo. Poveri, contadini poveri, poveri anche per ignoranza non sapevano neanche trovare sulla carta geografica il luogo dove li avevamo spediti a morire. Questa lapide è diventata per noi un po’ un simbolo della nostra azione. Abbiamo accolto i giovani che nascono incolpevoli nei luoghi della guerra. Che hanno la povertà estrema della frattura totale della possibilità dell’incontro con l’altro, che invece è quello che rigenera. Nell’incontro reale con l’altro abbiamo faticato tutti noi, ma anche abbiamo trovato la forza, la generazione dell’energia che poi ha potuto costruire vita, che ha costruito società e civiltà. Quando si rifiuta questa fatica e ci si chiude, la persona muore e le civiltà regrediscono. E allora a Rondine abbiamo deciso di ospitare i giovani che venivano dalla guerra della Cecenia. Grozny rasa al suolo, il rettore dell’università ci chiese, “prendeteci i giovani, non possono certo andare a Mosca”, e li prendemmo però con l’idea che avremmo preso anche i russi, perché altrimenti non sarebbe stata una vera educazione. La risposta fu molto semplice: “Ma se trovate un russo disposto a dormire in una stanza con un ceceno noi non abbiamo nulla in contrario". Abbiamo trovato un russo ed è nata la Cittadella della pace.
La racconto così, nei brevi minuti a disposizione per calcare la mano sul fatto che davvero per vivere ci dobbiamo incontrare guardandoci negli occhi, dobbiamo realizzare un incontro vero, un incontro autentico. Ai giovani di Rondine dico “abbiamo bisogno gli uni degli altri perché noi vi ricordiamo che dalla guerra si può uscire ma voi ci ricordate che nella guerra ci si può sprofondare”. Non mi piace chi usa il termine per la crisi economica finanziaria di ora, che siamo in guerra, perché è come se dicessimo che siamo già al limite ultimo. E abbandonassimo la coscienza invece che il rischio è ancora attuale. Non c’è una generazione che è esente dal rischio della guerra, allora, nella condivisione degli occhi questi giovani, si formano e scoprono una cosa incredibile. Un gruppo di psicologi è venuto a Rondine, voleva conoscere l'esperienza, alla fine delle 3 ore di colloquio uno di loro ha detto, “se non vedessi che la cosa è vera e buona, penserei di essere in un ambiente maniacale”. È interessante perché le cose più semplici sono diventate maniacali, e la cosa più semplice è che due giovani, tolti dall’avvelenamento del cuore e della mente, nati incolpevoli, pensando che tutti gli altri sono i loro nemici che li vogliono uccidere, in un ambiente diverso vedono che può nascere l’amicizia proprio là dove era impensabile. E allora vi lascio con due piccole perle che ci aprono già oggi il cuore di Dio. La prima perla riguarda quando io capii qualche anno fa che questa esperienza funzionava. Andando a fare le selezioni dei giovani che scegliamo per l'esperienza di Rondine, in Israele e Palestina a un certo punto il giovane israeliano che con noi faceva le selezioni degli altri giovani dovette rimanere nella parte di Israele, non poteva accedere nei territori della Palestina. Proseguiamo in macchina senza di lui e il giovane palestinese, ad un certo punto, si chiude in se stesso e si ammutolisce. E dopo un po’ gli chiediamo cosa avesse, e lui risponde "niente". "Che hai?" "niente". Alla fine sbottò: "Shaar, era il nome dell’israeliano, mi manca". Ecco la meraviglia, commovente, bellissima, la forza, l’energia esplosiva, di questo. Quello che era considerato fino ad un anno prima, un nemico, la fonte della propria infelicità, era diventato in maniera quasi spontanea, certo in un processo formativo particolare, la parte mancante di sè.
E l’altro episodio: andavamo con uno dei giovani israeliani al 64esimo anniversario della nascita dello Stato di Israele. L'ambasciatore di Israele ci aveva invitato per la festa, a Roma, e stavamo andando in auto. Gli chiedo di raccontarmi un po’, come vive dall’interno questa festa, e mi dice, “prima la vivevo come tutti gli israeliani, da quando sto a Rondine, questa festa mi va un po’ di traverso. Non riesco più a essere in festa”. Gli chiedo perché. E lui si stupisce quasi del mio perché e dice, “ma per forza. Penso a Ibhaim, penso a Camilia”, cioè pensa agli amici palestinesi presenti a Rondine. E conclude: “quel giorno che per noi è stato l’inizio della possibilità di vita, è stato l’inizio della catastrofe per Ibhaim.” “E prima non lo sapevi?” gli chiedo. "Ti sembrerà strano ma prima non lo avevo mai pensato. Non mi era entrato nel profondo del cuore." “E dunque?” "dunque io penso che dobbiamo lavorare per creare insieme una festa per tutti.
Ecco non c’è festa se la festa non è per tutti. La misura di queste amicizie che nascono sarà la loro capacita di aprirsi e giungere ad animare quella realtà che quando entra in crisi scoppiano le guerre: la politica. Si l'amicizia deve diventare l’anima della politica.
Grazie
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