Proponiamo la testimonianza di Silvia Pucillo, volontaria della Comunità di Sant’Egidio, pubblicata oggi sul supplemento “Buone notizie” dell Corriere della Sera di oggi, 19/12/2017.
Si dice «Natale con i tuoi» e, certamente, anch'io partecipo alla cena della vigilia con i miei. Ma siccome la mia famiglia da un po' di tempo si è allargata, non potrò mancare anche quest'anno, a mezzogiorno del 25, al Pranzo di Natale della Comunità di Sant'Egidio. E sarò felice di sedermi a tavola con altri «miei», un gruppo di bambini che conosco da tempo e che sono considerati «difficili», perché il quartiere in cui vivono è «difficile»: a Roma, ma forse in tutta Italia, basta dire Tor Bella Monaca per evocare, a torto o a ragione, problemi.
Mi chiamo Silvia, ho 19 anni, studio e abito anch'io in questo quartiere della periferia Est della capitale. Come loro, come i bambini che frequentano la Scuola della Pace della Comunità, dove si impara a crescere con gli altri, a rispettarli, a bandire la violenza, a studiare per andare avanti nella vita, a sognare un mondo diverso. Anch'io, da piccola sono stata una bambina alla Scuola della Pace qui a Tor Bella Monaca. Ora che sono grande restituisco ciò che ho ricevuto aiutando gli altri, chi ha più bisogno di me. Natale per me è un giorno fantastico. Gli invitati al pranzo li conosco tutti, li frequento durante l'anno: sono i minori del nostro quartiere, i bambini rom che abbiamo aiutato a iscriversi alla scuola elementare, altri poveri della zona, tra loro anche alcuni anziani soli. Non è difficile organizzare il Natale con i poveri. Il nostro è solo uno dei tanti che si realizzano in Italia, in Europa e in tutti i continenti: il più famoso è quello che si fa a Santa Maria in Trastevere, ma l'anno scorso hanno partecipato oltre 200 mila persone nel mondo e ho visto le foto dei pranzi in Asia e America Latina, con i bambini di strada, che sono davvero poveri, e quelli fatti con i detenuti di terribili prigioni africane.
A Tor Bella Monaca, anche quest'anno abbiamo girato nelle case per fare gli inviti. Alla fine abbiamo avuto il numero preciso di chi deve venire e, grazie ad una colletta straordinaria, ce l'abbiamo fatta non solo a cucinare un ottimo pranzo, ma anche a preparare i regali personalizzati, divisi per età e per genere, mettendo il nome, che non è assolutamente da dimenticare! Tanti giovani sono venuti ad aiutarci, qui in via dell'Archeologia: ragazzi delle scuole medie e superiori, altri più grandi. Tra le bambine invitate ce n'è una, di sei anni, che è giunta da poco a Roma. Viene da un Paese in guerra e non ha ancora imparato l'italiano. Voglio aiutarla ad avere un futuro migliore. Ma tanti altri, figli di immigrati, sono nati qui e hanno l'accento di Roma più di me. Studiare è importante, ma bisogna dare a tutti le stesse possibilità. Il nostro è un pranzo di pace perché nel quartiere c'è troppa violenza.
Non dimentico la preghiera di tanti più piccoli, che seguiamo durante l'anno, quando dicono «non te ne andare, non voglio tornare a casa». Il nostro non è semplice volontariato: bisogna cambiare le situazioni che incontriamo, le prospettive, il modo di vedere il mondo. Ma è affascinante perché si vedono un po' alla volta i risultati. Molti guardano chi fa volontariato con occhi che si illuminano pensando a tutto quello che si può fare mentre alcuni si fermano pensando di non essere capaci, di non essere adatti. Ma io credo che quasi sempre si possa fare qualcosa. Anzi si può fare molto. Basta che penso alla mia storia. In fondo anch'io, come molti giovani della mia età, potrei definirmi per alcuni aspetti «asociale», un po' chiusa. In altre parole, anch'io «difficile». Chi non lo è? Ma proprio gli amici che vengono con me al pranzo di Natale e, soprattutto, l'amicizia con tanti poveri, mi ha cambiato, mi ha insegnato a stare con gli altri.
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