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28 Novembro 2017 | ROMA, ITÁLIA

Abolir a pena de morte, para defender a vida de todos: o 10º Congresso dos Ministros da Justiça

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''Defender a vida de um condenado é defender a vida de todos, também a minha, também a nossa, é defender a beleza e a honra de viver", com estas palavras de Marco Impagliazzo, foi inaugurado esta manhã o X Congresso Internacional dos ministros da justiça "Um mundo sem pena de morte", organizado pela Comunidade de Sant'Egidio, em conjunto com o Ministério dos Negócios Estrangeiros e a Confederação Helvética, junto à Câmara dos Deputados em Roma.

Juntamente com o presidente da Comunidade de Sant'Egidio e o Ministro da Justiça Orlando, também interviram ministros e representantes dos governos de países quer abolicionistas quer os que mantêm a pena de morte, para um diálogo que marca um passo importante no caminho rumo à abolição.

O VÍDEO DO CONGRESSO >>

A intervenção de Marco Impagliazzo >>

A intervenção de Mario Marazziti >>

Photogallery >>

 

L'intervento di Marco Impagliazzo

Signori ministri, illustri ospiti,

Per la decima volta ci riuniamo insieme a tanti ministri della Giustizia e alti funzionari del medesimo dicastero per parlare di un mondo senza pena di morte. Lo facciamo in un clima di amicizia, in uno spirito di libertà e di apertura. Sono rappresentati qui paesi abolizionisti de jure o de facto e paesi mantenitori. Sono rappresentati qui tutti i continenti, tutte le culture, tutte le confessioni. Noi siamo qui per dialogare. Per confrontarci. Ma anche per orientarci. Già questo è un aspetto innovativo del nostro riunirci: al di là di visoni ideologiche, nazionali o culturali.

La Comunità di Sant’Egidio ha promosso quest’incontro allo scopo di esplorare ogni strada che conduca all’eliminazione della pena capitale. Ma non solo. Anche per esprimere la propria preoccupazione per l’aumento delle esecuzioni extragiudiziali, per il persistere dei linciaggi, per l’incremento del numero delle armi in circolazione, per accendere l’attenzione sulle pessime condizioni carcerarie in tante parti del mondo.

Lasciatemi, allora, spiegare il perché di questo nostro impegno.

Esso non nasce dall’essere nati in quest’angolo di mondo, culla di una certa civiltà giuridica e dell’abolizionismo di derivazione illuminista. Sant’Egidio è un soggetto globale, non appartiene a una cultura sola, per quanto alta e antica. La nostra Comunità, piuttosto, è figlia della predicazione del Vangelo e di Gesù che disse: “Rimetti la tua spada nel fodero!”. E’ figlia di una Chiesa che si è dichiarata, con papa Paolo VI all’ONU nel 1965, “esperta di umanità”.

Noi tali vogliamo essere. Uomini e donne al servizio dell’umano e di ciò che di più umano c’è al mondo: la vita!

Il nostro è un tempo in cui troppi, aperti e insistiti sono i messaggi di morte. Siamo di fronte alla sfida di un terrorismo che non soltanto non riconosce il diritto alla vita delle sue vittime, nemmeno di quelle più innocenti, come i bambini; ma anzi rivendica ed esalta la morte per gli stessi artefici di tali orrendi crimini.

Appare chiaro, oggi, proprio perché ci confrontiamo con il culto della morte espresso dal terrorismo suicida e dal diffondersi della violenza estrema, che difendere la vita è rifiutare ogni logica basata sulla soppressione di un essere umano, foss’anche quella del terrorista. Sì, cari amici, si contesta l’esaltazione della morte facendo della vita umana il cuore di ogni politica e di ogni giustizia. Il nichilismo che si annida nella mente e nel cuore di tanti ragazzi presi da un “furioso desiderio di morte” non è affatto contestato, bensì è avvalorato dalla pena di morte. Essere contrari alla pena capitale significa invece riaffermare le ragioni della vita: la vita è più forte di tutto.

In un mondo in cui la paura diviene la cifra del quotidiano, la pena di morte sembra la risposta più sensata a tutto ciò che si teme e si rifiuta. Ma essa non tiene lontana da noi la cultura della morte, anzi finisce per introdurla nelle nostre proprie mura, nella nostra stessa casa. La pena di morte rappresenta la vittoria di quel nemico che si vorrebbe tener lontano, di quel mondo estraneo che si intende esorcizzare. Con la pena capitale il nemico ha vinto, perché è entrato dentro di noi.

Se a una violenza che si manifesta in maniera preoccupante rispondessimo con una violenza analoga, per quanto di segno opposto, e per quanto legalizzata, non faremmo che banalizzare lo spargimento di sangue; non avremmo altro risultato che quello di rendere tale spargimento qualcosa di “naturale”. Come avviene in una guerra, quando si risponde colpo su colpo. Ma allora non staremmo parlando di giustizia; bensì di ritorsione, di vendetta. Non staremmo demonizzando la violenza; piuttosto finiremmo per normalizzarla. Ci avviteremmo in una situazione in cui il violento trova il suo specchio, senza che si possa distinguere più l’uno dall’altro, il fuorilegge dal tutore della legge.

La vita va amata. E dunque protetta. Non si può pensare che la pena capitale sia la cura per una società violenta. La pena di morte non è una medicina; è l’opposto, è un veleno. Ma noi, qui, non vogliamo avvelenare le nostre società. Al contrario, intendiamo cercare un antidoto al veleno della violenza, insieme.

La violenza è un veleno. Sottile, a volte. Non c’è solo la violenza delle armi. Quella frutto di strategie atroci e quella frutto della frustrazione e della follia improvvisa. Violenza è anche nelle parole, nelle coscienze. Violenza è nella contrapposizione e nell’aggressività.

La nostra società si è imbarbarita al punto che alcuni chiedono la cacciata di altri, percepiti come diversi, troppo diversi. Cacciare gli altri, non volerli vedere, è una forma di condanna a morte. Contrastando la pena di morte ci opponiamo alla separazione da quelli che sono membri dello stesso corpo sociale; ci opponiamo a un nuovo apartheid. Così come non vogliamo l’irreversibile per un’esistenza, non lo desideriamo nemmeno per un’intera società.

La scelta per l’irreversibile è la misura di quanto poco si abbia fiducia nell’uomo e nel futuro. Ma il futuro è ancora da scrivere, anche per la vita di chi si ritiene perduto.

Dopo un delitto, chi rimane, chi sopravvive, ha la facoltà di interrompere il ciclo della violenza. E’ questo, un grande potere dato all’uomo, a ognuno di noi. Un potere che ci interroga: cosa vuoi fare, tu uomo, di tale possibilità? In che modo vuoi costruire il futuro?

Finché c’è vita c’è umanità. Cioè scintilla di nuovi sentimenti e comportamenti. Del resto, è vero anche il contrario: esiste umanità se c’è vita, anche tale vita è poca, debole o limitata.

Di qui il nostro impegno per la vita in generale. La nostra attenzione alle periferie esistenziali, a un’umanità chiusa nelle carceri, negli ospizi per anziani o per disabili, negli orfanotrofi. Il nostro rispetto per l’uomo e la donna che vivono, anche quando si ha a che fare con un handicap, con l’età avanzata, con la malattia, con qualsiasi altra limitazione. Chi siamo noi per giudicare quanta vita è rimasta e quanto vale? Ecco il senso di tanti interventi e iniziative che Sant’Egidio porta avanti da anni. Per ricucire, costruire, sperare. Per alimentare la vita. E’ un movimento che coinvolge migliaia di persone di tutte le età e a ogni latitudine. Ed è fortemente incoraggiante che a questo movimento di difesa della vita partecipino tanti giovani che il 30 novembre di ogni anno, in ogni continente promuovono quella grande manifestazione che ha il nome di “Città per la vita, città contro la pena di morte”, che vede più di duemila città nel mondo coinvolte per l’abolizione della pena capitale. Una battaglia di civiltà che si svolge nelle città, luogo dove noi abitiamo e arriva fino alla più alta istanza politica del mondo che l’Assemblea delle Nazioni Unite, con la proposta di moratoria universale sulle esecuzioni iniziata nel 2007, in cui l’Italia gioca un ruolo decisivo, e che ha visto nell’ultima votazione del dicembre 2016 il voto così ripartito: 117 a favore della moratoria, 40 contrari, 31 astenuti, 5 assenti. Quindi un voto molto incoraggiante che negli anni ha visto ridursi il fronte dei contrari del 23% passando da 52 a 40 Paesi, mentre i favorevoli sono aumentati di 18 unità. Accanto a questo vanno aggiunte le tante notizie positive giunte in questi anni da paesi retenzionisti passati all’abolizione de jure o de facto. Vorrei segnalare per il 2017 la decisione della Guinea Conakry che con l’adozione del nuovo codice militare è divenuta completamente abolizionista dopo che il Parlamento nel 2016 aveva adottato un nuovo codice penale che elimina la pena di morte dalle sanzioni applicabili. O il caso del Marocco, dove il Consiglio degli Ulema ha riscritto le norme sull’apostasia stabilendo che non rischia più la pena di morte chi abbandona l’Islam. Altra decisione altamente significativa è quella del Guatemala dove con una storica sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato la pena di morte incostituzionale per tutti i reati per cui è contemplata dall’articolo 18 della Legge fondamentale. A livello civile è ormai una pena incostituzionale. In Vietnam salutiamo con soddisfazione il fatto che a inizio 2018 entrerà in vigore la versione emendata del codice penale che non prevederà più la pena di morte per cinque fattispecie di reato.

E poi c’è il lavoro quotidiano di accompagnamento di istituzioni statali per sostenere giuridicamente e politicamente le scelte in direzione dell’abolizione. Tutte queste considerazioni mi spingono a concludere che, oggi, essere contro la pena di morte è scegliere di far parte di un più vasto movimento che intende farsi difensore della vita, promotore del diritto alla vita. Sempre e in ogni contesto.

Difendere la vita di un condannato è difendere la vita. Anche la mia, anche la nostra. E’ difendere “l’onore di vivere”. La bellezza e la grandezza del vivere.

Non c’è distinzione tra giusto e ingiusto se non salvaguardiamo quella barriera che ci rende uomini di legge, e non di morte.


L'intervento di Mario Marazziti

E’ raro, per certi aspetti unico, avere qui tanti responsabili della giustizia, arrivati qui attraverso i fili di amicizia e di dialogo dai miei amici della Comunità di Sant’Egidio: instancabili tessitori della pace e di soluzioni possibili anche su terreni ritenuti impossibili, frequentatori delle periferie umane e urbane del mondo. Ringrazio loro e ciascuno di voi per avere accettato l’invito ad essere qui. Sono contento di ospitarvi, come presidente della Commissione Affari Sociali e rappresentante di questo Parlamento Italiano. E’ la continuazione della visione, illuminante, di un grande italiano. Lo ricordiamo tutti, Cesare Beccaria. Giovanissimo, nel XVIII secolo, aveva compreso che è “un assurdo che le leggi, [le quali]  … detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico» (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII).”

Il mondo si era abituato alla pena di morte fin dai suoi primi passi. Era sembrata naturale quasi come l’aria e l’acqua. Così è stato per la schiavitù e la tortura. Fin quando la schiavitù è stata abolita, almeno ufficialmente, e l’economia del mondo non è crollata. E la tortura è diventata fuori legge. La si pratica ancora, purtroppo, ma la si pratica di nascosto. Perché è radicalmente sbagliata.

Non aiuta mai la sicurezza dei popoli. Rende più vulnerabili alla violenza, la tortura, perché disumanizza anche chi è dalla parte della ragione.

Anche la pena di morte è entrata in una fase della storia in cui irrimediabilmente sta diventando uno strumento del passato. Ne sono convinto: il dubbio non è sul SE, se la pena capitale scomparirà dagli ordinamenti penali. La domanda è sul QUANDO. Anche se la violenza nel mondo, mai come oggi, sembra crescere, pervasiva, maligna.

La storia dell’umanità è un lungo restringersi del numero dei reati per cui era comminata la pena di morte e delle esecuzioni, dal  Codice di Hammurabi, circa 3800 anni fa, che codificava la pena di morte per 25 reati, ma non per l’omicidio, alla prima abolizione da parte di uno Stato, nel mondo occidentale, il Granducato di Toscana, che abolì la pena capitale nel 1786, sulla spinta del pensiero di Beccaria e di un governante illuminato, Pietro Leopoldo di Toscana. E’ nell’anniversario di quella abolizione che la Comunità di Sant’Egidio e la Toscana hanno lanciato il movimento mondiale delle Città contro la pena di morte. E’ un movimento di più di 2000 Città per la Vita, nel mondo, oggi. L’Italia ha rinunciato all’uso della pena di morte nel codice penale definitivamente con la nascita dell’Italia repubblicana, nel 1946, per poi cancellarla anche dal codice militare e dalla Carta costituzionale. L’Europa ha rinunciato alla pena capitale, progressivamente, dopo la Seconda Guerra Mondiale: troppa morte sul suolo europeo. Nella Carta di Nizza c’è un rifiuto radicale: è parte dell’identità europea, oggi. La pena di morte si è ristretta. Solo 16 paesi l’avevano abolita nel mondo nel 1975. L’anno scorso solo 23 Paesi al mondo su 200, comprese le entità territoriali che non siedono all’ONU, ha compiuto esecuzioni capitali. Due in meno rispetto al 2015. La Bielorussia e le autorità dello Stato di Palestina hanno ripreso le esecuzioni dopo un anno di interruzione, mentre Botswana e Nigeria hanno eseguito le loro prime condanne a morte dal 2013. Ma nel 2016, Amnesty International non ha registrato esecuzioni in sei paesi, Ciad, Emirati Arabi Uniti, Giordania, India, Oman e Yemen, che invece ne avevano eseguite nel corso del 2015.

C’è stato un calo del numero di esecuzioni conosciute, tra il 2015 e il 2016 del 37 per cento. Anche in Cina, a quel che si conosce. Ma l’Iran è responsabile del 55% di tutte le esecuzioni registrate. Insieme ad Arabia Saudita, Iraq e Pakistan ha effettuato l’87% di tutte le sentenze capitali registrate lo scorso anno. L’Iraq ha più che triplicato il numero di esecuzioni, l’Egitto e il Bangladesh lo hanno raddoppiato. Gli USA per la prima volta da molti anni non risultano tra i primi 5 Paesi: è una diminuzione che procede da 20 anni e corrisponde a maggiori garanzie legali e alla crisi del metodo di infliggere la morte, l’iniezione legale. Lotta al terrorismo e lotta al commercio di stupefacenti sono le ragioni evocate per la ripresa o l’aumento delle esecuzioni. E mi si consenta qui una riflessione con tutti voi proprio su questi ultimi dati. Colpisce la presenza dell’Irak ai livelli alti delle esecuzioni capitali. Un paese nel quale le democrazie occidentali e l’Europa, senza pena di morte, non smettono da venti anni di essere impegnate. Tutti i Paesi qui evocati hanno un rapporto speciale con l’Europa, in maniera diversa.

E di fronte alla nuova fase del terrorismo internazionale, caratterizzato da attacchi suicidi specialmente contro civili, da una cultura di morte, l’incongruenza del ricorso alla pena capitale appare evidente. Proprio la pena di morte e l’indurimento delle pene diventa un modo in cui atti dimostrativi che hanno per obiettivo la paura e la chiusura di interi paesi e di intere società raggiungono un obiettivo molto più vasto. Si uccidono decine, centinaia di persone, ma si ottiene di diffondere la paura e di svuotare dall’interno la convivenza di milioni, centinaia di milioni di cittadini. L’idea di combattere il traffico di droga mondiale e a livello di stati attraverso la pena capitale appare priva di senso. 250 milioni sono le persone che fanno uso di stupefacenti nel mondo. Il 5,2 per cento della popolazione mondiale. Appare completamente inappropriata e indimostrabile l’idea che una repressione che comporti la pena capitale, in un mondo in cui le morti prevenibili, per eccesso di droga, sono calcolate in 190 mila l’anno, quasi 29 i milioni di persone con problemi di salute droga-correlati, incluse HIV, Epatite C e altre malattie.

Il prossimo anno all’UNGA sarà presentata una nuova Risoluzione per una Moratoria Universale delle esecuzioni. Nel 2016 è stato confermato il grande risultato del 2014, quando l’Italia ha guidato come presidente europeo il percorso verso la Risoluzione: 117 i voti favorevoli, con un incremento di 6 voti rispetto alla Risoluzione precedente e 33 i  contrari. E un grande successo della sinergia tra istituzioni, governi e lavoro dal basso che con la Comunità di Sant’Egidio si è consolidato sul terreno della pace e della riconciliazione nelle guerre civili, e che è diventato un valore aggiunto nel cammino di uscita dalla pena capitale del mondo. Un lavoro condiviso con la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte, con altre ONG, da Nessuno tocchi Caino ad Amnesty International. L’anno scorso i nuovi voti a favore sono stati quelli di Guinea, Malawi, Namibia, Swaziland, così come quello delle Isole Solomone e dello Sri Lanka. E’ passato ad un voto a favore anche Nauru, che nel 2014 era assente. Mentre lo Zimbabwe è passato da un voto contrario all’astensione.

L’Italia ha fatto della diplomazia umanitaria e dell’abolizione della pena di morte, la collaborazione con gli altri Paesi per trovare alternative all’uso della pena di morte, un perno ufficiale della sua politica estera, come hanno affermato con azioni concrete tutti i governi in questa legislatura, con l’azione dei ministri degli esteri e dei presidenti del Consiglio Letta, Renzi e Paolo Gentiloni sia alla guida della politica estera che, oggi, del Paese.

Lasciatemi dire che è stato anche il frutto di un intenso lavoro di diplomazia umanitaria parlamentare.

Da questo Parlamento ho avuto personalmente l’onore e la possibilità di farla crescere, al Palazzo di Vetro e altrove nel mondo, nel quadrante Asia-Pacific, dal Giappone alle Filippine, nei Grandi Caraibi come presidente del Comitato per i Diritti Umani e parte della task force della Farnesina. E con tutta l’esperienza e la capacità maturata con la Comunità di Sant’Egidio, nella Comunità di Sant’Egidio. La diplomazia parlamentare è una nuova frontiera, a mio parere. Domani sarò all’assemblea dei Parlamentari della PGA a Milano, che ha messo al centro la lotta comune per alternative alla pena di morte nel grande continente asiatico. 

Quali le frontiere oggi per una giustizia davvero giusta e capace di non abbassare la comunità al livello di chi uccide?

Conoscenza e trasparenza. Bielorussia e Vietnam coprono ancora con il segreto di stato le informazioni sulle esecuzioni capitali. In Giappone da pochi anni viene comunicata all’opinione pubblica una avvenuta esecuzione. 

Ma, di certo, l’elemento che più può cambiare la storia della pena capitale è una adeguata difesa legale. L’errore giudiziario è endemico in Paesi che hanno un fermo di polizia che può arrivare a più di venti giorni, come in Giappone. Una parte rilevante delle condanne capitali in India, grande democrazia e stato di diritto, viene ribaltata dalle Corti Superiori e dalla Corte suprema per lacune importanti nel processo legale.

E’ sempre più forte a livello internazionale il movimento dei familiari delle vittime che chiedono di non aggiungere una morte alla morte già avvenuta di un proprio congiunto.

E occorre lavorare sulla contraddizione in termini che è l’illusione della morte pulita, quella amministrata con l’iniezione legale. Che rimane tortura. E che usa farmaci creati per la vita, invece, per dare la morte.

La fallita esecuzione di Alva Campbell in Ohio, questo mese, perché troppo malato e con vene troppo malandate per trovarne una per ucciderlo, dopo tre tentativi diversi, o la decisione del Nebraska di riprendere le esecuzioni con un cocktail mai provato prima, dopo le botched execution in Arkansas indicano uno stato di crisi radicale dell’esecuzione letale, il meglio fin qui trovato dall’umanità per coprire il dato reale della morte inflitta dallo stato. Dalla prima messa al bando del sodium thipetntal, nel 2007, per l’azione di Sant’Egidio, Reprieve e Hands off Cain, oggi 20 case farmaceutiche hanno vietato di usare propri farmaci per le esecuzioni, ultima, il gigante Pfizer. Lancio un appello all’intero mondo farmaceutico mondiale perché diffidino dall’uso e introducano sanzioni per quelle amministrazioni pubbliche che utilizzino farmaci nelle esecuzioni capitali.

Occorre meditare anche sul tema degli innocenti. Anche un solo errore giudiziario dovrebbe essere sufficiente per decidere di non ricorrere all’unica pena in cui il danno non può essere riparato, in caso di errore.

Cresce il numero dei condannati a morte innocenti che escono dal braccio della morte. Negli USA il Registro Ufficiale ha superato i 1900 casi di condanne della persona sbagliata. Mentre gli Afro-Americani sono il 13 % della popolazione, salgono al 61 per cento del totale degli innocenti condannati al posto di altri. 160 di questi erano condannati a morte che hanno trascorso più di 11 anni nel braccio della morte. 4 di questi liberati nel 2017. In venti casi il DNA ha dimostrato la completa innocenza di condannati a morte. Di tutte le persone colpevoli scagionate da esami del DNA dopo molti anni 7 su 10 erano state identificate da testimoni oculari e in 3 casi su 10 c’erano state condanne sulla base di confessioni, evidentemente forzate. La metà di queste tra i giovanissimi. A giudicare dagli innocenti liberati un innocente nero ha 7 volte le probabilità di un bianco di essere condannato a morte innocente negli USA. Anche quando la condanna sembra fondata su prove inconfutabili, come si vede, l’errore è molto alto. La giustizia infallibile non esiste. Per questo un sistema giudiziario senza pena di morte aumenta l’autorevolezza del sistema giudiziario stesso.

La pena di morte, si sa, colpisce in maniera sproporzionata anche le minoranze politiche, sociali, religiose, etniche, l’”avversario” politico o sociale  o additato tale. Nelson Mandela poteva essere condannato a morte. Gli fu dato il carcere a vita. Non ci sarebbe stato il nuovo Sudafrica.

La pena di morte crea sempre nuove vittime: non guarisce dall’odio e dal dolore le famiglie di chi ha subito una perdita del proprio caro, aggiunge vittime alle vittime, perché strappa le famiglie dei condannati a morte, toglie un padre e una madre ai figli, sicuramente innocenti, incolpevoli. Crea “i figli del mostro” tra persone innocenti.

La pena di morte promette una falsa guarigione dal dolore. Non si guarisce mai aggiungendo a una morte un’altra morte.

Un’ultima parola, ancora, sul terrorismo.

Il Rapporto START sulle vittime del terrorismo nel 2016 ha registrato 13.488 attentati, con 34.676 vittime, di cui più di 11.600 sono attentatori, un  terzo. Considerando il dato nel complesso, va segnalato che il numero di azioni criminali è diminuito del 9% circa rispetto al 2015, mentre il numero di vittime è sceso del 10%.

Il dato che più ci riguarda da vicino è quello legato alle zone geografiche nelle quali questi attacchi sono stati perpetrati. L’87% degli attentati – corrispondente anche al 97% delle vittime – è avvenuto in precise zone del mondo, tra le quali la regione MENA (Middle East & North Africa), l’Asia del Sud e l’Africa subsahariana.

Dei rimanenti attacchi terroristici, il 2% è avvenuto nell’Europa occidentale e ha provocato 238 morti, pari allo 0,7% del totale. Questo ci deve interrogare sia sull’inefficacia della pena di morte come strumento di difesa che sulle politiche adottate, sulla narrazione e l’enfatizzazione della paura, sugli automatismi che concedono al terrorismo risultati a catena non proporzionati al danno effettivo. Molti diffondono una cultura del disprezzo e della paura: e regalano la vittoria ai cultori della morte amplificando la paura, la predicazione del disprezzo, e chiedono,  irresponsabilmente, paradossalmente, di imitare chi si vorrebbe combattere. 

Io penso che qui sta una grande sfida per l’Occidente. Non cadere nella trappola del terrore. Come quello della paura che Daesh, il Califfato, vorrebbe paralizzasse le democrazie occidentali, mentre cerca di prendere l’egemonia nel mondo sunnita usando l’Occidente come megafono e teatro. E allora dobbiamo capire cosa sta accadendo. E’ la trappola in cui il Califfato vuole che cada il mondo occidentale. La morte è desiderata, esibita, deve diventare contagiosa.

Per questo è oggi più che mai il tempo di un rifiuto radicale della morte e di una cultura di morte. Per essere radicalmente diversi. Per attrarre nuovamente al gusto di vivere insieme anche i foreign fighters, chi è partito credendo che in quella morte c’è una rigenerazione sociale.

Per ridurre il tasso di violenza nel mondo in cui viviamo.


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