Francescano, Turchia
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Dio è il Padre di tutti, Cristo ha ucciso l’odio, e quando lo Spirito soffia al di là delle nostre frontiere, sa quello che fa. Dio ci ha amati per primo, e quando Cristo ci dice di amarci gli uni gli altri fino alla fine del mondo, sa di che cosa parla. Con questo punto di partenza scritturale, a mio parere ci sono due fonti alla base dello spirito di Assisi: l’incontro di San Francesco e del sultano d’Egitto a Damietta nel 1219, con le righe della sua regola sull’essere inviati verso i non credenti, e l’incontro di Giovanni Paolo II con i leaders delle altre religioni nella terra di Francesco, il 27 ottobre 1986.
Lo spirito di Assisi può essere raccontato con tre verbi: amare, incontrarsi, pregare. E’ così che io posso riassumere la mia vita francescana in mezzo agli altri credenti, in particolare nell’Africa occidentale e a Istanbul.
Amare
Bisogna amare per costruire la fraternità universale. Vivere in Turchia da un decennio e avere degli amici turchi è per alcune “persone delle retrovie”, difficile da accettare. La difesa dei cristiani perseguitati diviene per essi una giustificazione per odiare. Così, qualche mese fa, ho ricevuto un bigliettino anonimo: “Ci sono quelli che soffrono e quelli che tradiscono”.
Siamo tutti peccatori e quindi non possiamo aspettarci che l’altro sia perfetto più di quanto egli possa esigere che io lo sia. Ci si nasconde facilmente dietro la reciprocità per mettere un “bemolle”, una sordina al nostro amore. Come se la reciprocità fosse la prima virtù raccomandata dal Vangelo. La reciprocità è necessaria per dialogare, non è un postulato per partire alla ricerca dell’incontro.
Incontrarsi
Lo Spirito che è in me mi spinge a raggiungerlo nell’altro, in cui Egli lavora così come lavora dentro di me. Egli mi aspetta nel cuore dell’altro, e ogni volta che l’altro non gli sbarra anche lui la strada, devo essere pronto a comunicare con lo Spirito del Padre e del Figlio che ci vede insieme.
Dobbiamo osare l’incontro: esso può essere la ricerca di una convivenza pacifica, senza riferimenti religiosi, ma voglio spingermi più lontano nello spirito di Assisi e osare l’incontro spirituale, divenuto per me più che un desiderio, un’esperienza. Frate minore, la mia vocazione è quella di mostrare - malgrado le mie mancanze e le mie ritrosie, ma appoggiandomi soltanto sull’aiuto di Dio - con i miei silenzi, i miei gesti, le mie parole, che noi apparteniamo alla stessa famiglia, qualsiasi siano le nostre differenze.
Il Signore preferisce senza dubbio da parte mia la discrezione. Arrivato in Turchia a 68 anni, non ho tratto praticamente nessun profitto dalle lezioni di lingua e, a 74 anni, sono dovuto venire per qualche settimana a studiare l’italiano per poter parlare, a Istanbul, con il francescano coreano della mia fraternità.
Dal mio barbiere, una volta che ho dato fondo alla metà delle mie conoscenze della lingua turca dicendogli buongiorno, mi siedo e, durante il tempo di un taglio di capelli magnifico (!), attraverso lo specchio ci scambiamo dei sorrisi e qualche gesto. L’anno scorso, in occasione della rottura del digiuno, abbiamo invitato qualche amico, tra cui Ahmet. Grazie a un confratello gesuita nettamente più portato di me per le lingue, ho voluto dirgli che noi potevamo anche parlare poco, ma che io lo amavo molto. Il mio traduttore mi ha detto “E’ esattamente quello che mi ha appena detto nei tuoi confronti”. Egli ha tradotto comunque...e il nostro sorridere a tutti era un momento di comunione.
Pregare
Ogni anno in ottobre teniamo un piccolo corso sul dialogo, rivolto a fratelli e sorelle provenienti da tutti i continenti. In memoria della Giornata di Preghiera per la pace ad Assisi, organizziamo una veglia con dei dervisci danzanti. La loro guida è divenuto per me un fratello spirituale.
Dopo una processione insieme, ci disponiamo gli uni di fronte agli altri nella navata della chiesa di Saint Louis (San Luigi). Il nostro frate Guardiano incensa un’icona di Abramo, un’altra della Vergine Maria, e una ceramica che ricorda la visita di San Francesco al sultano, mentre i cattolici presenti intonano il cantico francese “Al di là di ogni frontiera”.
Dopo una spiegazione sullo svolgimento e lo spirito della cerimonia, la prima parte è animata dai frati minori: i canti, inframezzati da letture sullo spirito dell’incontro, terminano davanti all’icona della Vergine. La seconda parte è la danza rituale dei discepoli di Rumi. Infine, ci riuniamo in semicerchio, girati verso la porta, spalancata sul mondo, per cantare la preghiera “Fà di me uno strumento della tua pace”, e ci prendiamo il tempo necessario per scambiarci il bacio di pace durante il canto dell’Alleluja, prima di uscire di nuovo in processione. La serata continua in maniera fraterna con un pasto offerto da un amico derviscio.
Io posso pregare in tutte le moschee, ma in quella di Sisli ho voluto chiedere, come un passo ulteriore sulla via della comunione, il consenso dell’imam principale e del mio fratello spirituale. Dopo 44 anni di questo ministero, che non avevo previsto, penso sinceramente che Dio voleva donarmi, al di fuori delle mie frontiere, un popolo da amare. Che felicità, dopo questo lungo percorso, nel comprendere che il mio compito è soprattutto raggiungere il mio popolo là dove si sente più vicino al nostro Dio, e collocarmi, senza alcun sincretismo, come prete inviato verso questa comunità. La mia preghiera senza gesti, e tutta interiore, è senza dubbio un’intercessione perché questo popolo risponda sempre meglio a Dio, nel modo che gli sembra migliore; essa (la preghiera) è, per il figlio del Pellegrino di Damietta che cerco di essere, l’azione di grazia per il lavoro dello Spirito nelle periferie esistenziali spesso evocate da Papa Francesco. Queste non sono soltanto le periferie ben conosciute dalla Chiesa, alle frontiere tra ricchi e poveri ma anche le periferie, nuovamente riconosciute dalla Chiesa, alle frontiere tra credenti.
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