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18 Maig 2017

Dopo il tragico rogo di Centocelle a Roma

Bruciate vive? Erano rom.

Le tre sorelle morte nell'incendio del camper nel quale vivevano sono vittime di un regolamento di conti. Ma la realtà non cambia, ed è fatta di degrado e ignoranza

 
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Alla fine, che sia il drammatico risultato di un regolamento dei conti tra clan all'interno della comunità rom della capitale anziché l'esisto nefasto della sfrontatezza razzista, cambia ben poco riguardo al rogo di Centocelle. Certo spiace, ma... Come se tre ragazzine morte bruciate, tre bambine rom inghiottite dalle fiamme mentre dormivano in un camper nel parcheggio di un supermercato fossero, alla fine, un danno collaterale della loro appartenenza etnica, i rom, sulla quale si riversano le più grandi crudeltà, l'odio maggiore, le paure più ancestrali.
Alzi la mano chi non ha tirato un sospiro di sollievo quando si è esclusa la rabbia sociale. Né basta lo striscione che per un momento è apparso nel parcheggio della morte, che le abbracciava come figlie del quartiere per sbaragliare l'idea della criminalizzazione totale di un popolo.
È accaduto di notte, un lampo che percorreva il buio, la scia di una bottiglia incendiaria che volava verso quel camper vecchiotto posteggiato da settimane, tanti occhi dalle finestre dei palazzi, in un quartiere dove gli zingari dividono, mischiano odio e paura, disperazione e rabbia per furti e degrado. Vivevano in tredici in quel camper, undici figli e due genitori.
Di cognome facevano Halilovic. Elizabeth, Francesca e Angelica non ce l'hanno fatta a scappare, incastrate nella cuccetta alta. Avevano venti, otto e quattro anni. Ma la domanda vera non è se si può morire così. La domanda vera è perché vivevano in tredici lì dentro e perché nessuno in questi mesi ha alzato la mano.
Pochi si occupano dei poveri, figurarsi dei rom. E neppure vale stupirsi di quanto emerge dalle indagini. Perché i rom dovrebbero essere migliori degli italiani? Perché meravigliarsi se alcuni di loro sono stati risucchiati dalla criminalità organizzata, oppure si sono messi in proprio nel malaffare e sono finiti nel buco nero delle vendette incrociate?
Lo stigma già ce l'hanno appiccicato addosso e viene alimentato dai ghetti nel quale l'Italia li ha confinati. Ha detto monsignor Paolo Lojudice, uno
dei vescovi ausiliari di Roma e delegato di Migrantes per il Lazio, alla preghiera che la Comunità di Sant'Egidio ha convocato nella basilica di Trastevere in ricordo delle tre ragazze: «Le lacrime di coccodrillo non servono», se non si supera la logica dei campi, di solito ficcati in quartieri dove si sommano miserie a miserie, malessere a tragedie. Don Paolo ha ricordato con amarezza le parole di un amico, parroco di un grande quartiere periferico: «Nelle nostre zone ad alto rischio ci sono persone meravigliose, eccezionali perché ogni giorno devono fare i conti con una realtà ostile... Da parroco non posso non notare che chi ha alle spalle una famiglia solida ha più possibilità, gli altri probabilmente non ce la faranno. E noi che li abbiano battezzati, che abbiamo raccolto le loro confidenze, siamo stati testimoni della voglia di non arrendersi, dobbiamo vederli perdere, spacciare, morire... che senso di desolazione!».
Ma sono rom, e la Chiesa che apre le porte agli zingari entra in zona ostile. La Comunità di Sant'Egidio da anni si batte per una diversa narrazione dei rom, popolo umiliato, impoverito, dimenticato dalle politiche sociali, perseguitato. È la più grande minoranza etnica in Europa, ma anche quella su cui regna la più totale ignoranza.
Molti pensano addirittura che rom sia un diminutivo di romeno e che a loro piaccia vivere nel fango, i bambini rosicchiati dai topi mentre dormono. Molti sono convinti che siano nomadi e non sanno che chi sta nei campi non si sposta più da decenni, che la loro aspettativa di vita è di dieci anni più bassa di quella degli italiani, la mortalità infantile elevata, la scolarizzazione bassissima.
Eppure all'Italia va bene così, tra dimenticanza e sgomberi forzati e brutali con l'invocazione di ruspe. A Roma l'emergenza va avanti da sempre e in prima fila a contrastarla solo Sant'Egidio e la Caritas. Altrove in Italia, e soprattutto in Europa, ci sono esperienze di inclusione di ben altro livello, compreso l'accesso reale alle case popolari. In Italia le loro domande, chissà perché, finiscono quasi sempre in fondo alla fila. La discriminazione è dettata dalla paura e dal consenso.
Per questo motivo nessuno si è fatto scrupolo per non aver inserito la minoranza rom nella legge 482/1999 che, in attuazione dell'art. 6 della Costituzione, riconosce e tutela dodici minoranze storico-linguistiche.
I rom allontanano voti, meglio non rischiare. E così da anni si disattende la Strategia nazionale di inclusione di rom, sinti e caminanti, che è lasciata solo alla buona volontà di interventi delle singole amministrazioni locali.
La Strategia è un documento redatto dall'Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), approvato dal Governo nel febbraio del 2012. È stata la Commissione europea a raccomandare ai ventisette Paesi aderenti di promulgare un piano d'inclusione della minoranza rom e sinti presente in tutti i Paesi europei. Le bambine morte a Centocelle su quale coscienza, alla fine, pesano?


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