Il Papa argentino entra umilmente e decisamente con le armi dello spirito nella terra ferita e «promessa» a tanti popoli diversi. Di fronte a mondi divaricanti, propone un punto di conciliazione, più in alto della politica.
Papa Francesco si è avvicinato, con il passo del credente e non del politico, agli intricati problemi mediorientali. Ma in quella terra la politica è strettamente legata alle questioni religiose. Così anche un viaggio pastorale e ecumenico, mostra inevitabilmente un volto «politico». Per Francesco l'approccio del credente non sorvola i problemi. Lo si è visto subito quando, atterrato a Amman, ha ricordato (e incontrato) i tanti profughi (siriani, iracheni e palestinesi) accolti in Giordania. Ma anche, quando nei Territori palestinesi, si è fermato a sorpresa, silenzioso, innanzi al muro che separa da Israele. La politica si è sempre arresa di fronte all'impossibile operazione di conciliare la sicurezza e le esigenze d'Israele con la necessità di uno Stato palestinese, ma anche le tante anime israeliane con quelle palestinesi. Il Papa argentino non si arrende. Entra umilmente e decisamente con le armi dello spirito in questa terra ferita e «promessa» a tanti popoli diversi. Sosta al muro voluto dagli israeliani, ma visita anche Yad Vashem, memoriale della Shoah. Di fronte a mondi divaricanti, il Papa argentino propone un punto di conciliazione, più in alto della politica. C'è poco da fare, se si resta prigionieri delle memorie contrastanti e delle diffidenze ormai quasi secolari. Non bisogna aver «paura del cambiamento» ha detto il Papa in Giordania. Il cambiamento di prospettiva dev'essere radicale - ha spiegato Francesco al presidente palestinese Mahmoud Abbas: un «esodo verso la pace con quel coraggio e quella fermezza necessari per ogni esodo». Si deve uscire dal groviglio di interessi, paure, violenze e memorie. Intanto però, mentre il Papa è a Betlemme, il primo ministro di Hamas, Haniyeh (che controlla Gaza), si trova in visita ufficiale a Teheran. È un altro elemento di difficoltà, che renderà Israele ancora più guardingo verso la recente riconciliazione tra Hamas e il presidente Abbas. Ma papa Francesco guarda più in là della cronaca. Ieri, a sorpresa, ha invitato il presidente israeliano Peres e Abbas a un incontro di preghiera: «Offro la mia casa in Vaticano per ospitare questo incontro». I due hanno accettato per il prossimo mese. È un segnale importante: «Costruire la pace è difficile ma vivere senza pace è un tormento» - ha affermato il Papa con realismo. Sono i tormenti dei palestinesi e degli israeliani: diversi, ma entrambi ormai insopportabili.
Ci troviamo di fronte a una concreta affermazione dello «spirito di Assisi». Il rabbino David Rosen, grande uomo di dialogo, ha lamentato l'assenza di un momento interreligioso durante la visita. Ci fu con Benedetto XVI, ma rappresentò un'ora spiacevole per l'aggressività di un imam palestinese. Francesco realizza qualcosa di più di un momento interreligioso: fa discendere la pace dalla preghiera comune dei credenti. «Non preghiamo più gli uni contro gli altri, ma gli uni accanto agli altri» - fu l'invito di Giovanni Paolo II a Assisi nel 1986. Oggi un suo successore lo ripete in Terra Santa, invitando a uscire dalle logiche contrapposte e a venire a Roma. Il Papa ha voluto con decisione la visita in Israele prima che Peres termini il suo mandato (luglio 2014), perché lo vede disponibile a gesti di pace. Così il Papa-pastore, non schiacciato sulle forme diplomatiche, propone una via d'uscita spirituale al blocco della politica. Cerca quello che unisce e mette da parte quello che divide: era la proposta di un suo predecessore, Giovanni XXIII, che fu anche un grande diplomatico dello spirito.
In questa logica si colloca la preghiera ecumenica al Santo Sepolcro. Valeria Martano, in un recente libro, L'abbraccio di Gerusalemme, ha mostrato l'enorme significato dell'incontro di cinquant'anni fa tra Paolo VI e il patriarca Athenagoras, all'origine dell'ecumenismo dell'ultimo mezzo secolo. Oggi non c'è una simile sorpresa. Ma i cristiani divisi pregano insieme nel Santo Sepolcro, una chiesa dove per secoli i cristiani divisi hanno coabitato scontrandosi e ignorandosi come «separati in casa». Molti non sanno che una parte cospicua degli ortodossi non prega assieme ai cattolici. La preghiera comune di Gerusalemme è una conquista di papa Francesco e del patriarca Bartolomeo. Soprattutto è l'indicazione di una strada di unità se, nel XXI secolo, molte Chiese non vogliono sprofondare nell'irrilevanza, di fronte alla globalizzazione e al moltiplicarsi di tante offerte «religiose». Questo Papa, non diplomatico, sta registrando un «successo» politico. La presenza e la visione diplomatica del Segretario di Stato, Parolin, è un aiuto importante. Il colloquio costante con il mondo ebraico attraverso l'amico rabbino Skorka ha un rilievo. Ma il segreto di papa Francesco è lasciarsi toccare dai problemi concreti dei popoli e non rassegnarsi. Lo si è sentito nell'omelia a Betlemme, dove non si è abbandonato a lirismi pii, ma si è chiesto: «Chi siamo noi davanti ai bambini di oggi? Siamo come Maria e Giuseppe, che accolgono Gesù e se ne prendono cura con amore materno o paterno? O siamo come Erode, che vuole eliminarlo?». Per il Papa non c'è più spazio e tempo per una posizione intermedia tra la violenza di Erode e lavorare per il futuro e la pace dei bambini in Terra Santa e nel mondo.