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24 Giugno 2016

L'arcivescovo Becciu alla veglia per le vittime delle migrazioni

Di speranza non si può morire

 
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«Ogni viaggio deve poter avere una meta: che sia in Italia o in altri Paesi, questa meta si chiama dignità. Non si può negare la dignità, rifiutare la vita, negare il futuro. Se non saremo capaci di offrire questa possibilità, noi stessi lo perderemo ed esauriremo le riserve di cultura e umanità del nostro continente». Usa parole forti l'arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, durante la preghiera ecumenica in memoria di quanti perdono la vita nei viaggi verso l'Europa. Organizzato giovedì pomeriggio, 23 giugno, dalla comunità di Sant'Egidio nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere e ín contemporanea in altre città del Paese, l'appuntamento di preghiera ha uno slogan altrettanto forte: «Morire di speranza». Vi partecipano fratelli riformati, il centro Astalli, la Caritas, Migrantes, l'associazione Giovanni XXIII, le Acli e molti migranti, spesso familiari, amici o compagni di viaggio di quelle persone che hanno «incontrato la morte mentre viaggiavano alla disperata ricerca della vita», i cui nomi vengono ricordati durante la veglia. All'omelia il presule rievoca «i rischi che minacciano tanti esseri umani in cerca di pace e di una vita più dignitosa» e invita a non «abituarci e rassegnarci alla morte di tante persone» e a «non assistere impotenti all'innalzamento di muri che separano e uccidono la speranza». Perché, aggiunge, per i «cristiani il volto del forestiero è il volto di Cristo affamato, assetato, svestito, ma anche rifugiato, profugo, straniero, senza terra, in fuga dalle guerre, respinto senza compassione, vittima dell'indifferenza o del traffico di esseri umani, inghiottito dalle acque del Mediterraneo o disperato davanti al filo spinato, dopo aver percorso estenuanti tragitti pieni di pericoli».
Rilanciando alcune drammatiche immagini rese note dai media, l'arcivescovo Becciu chiede di non dimenticare «lo sguardo innocente dei bambini privati di terra e di futuro», come il «piccolo Aylan o Garam», la «neonata di pochi mesi, uccisa dalla fame e dal freddo, in braccio alla giovane madre, ritrovata in stato di shock nel sud della Turchia, dopo essere fuggita dalla martoriata Aleppo e aver percorso cento chilometri a piedi». E nel farlo il presule elenca «l'impressionante numero dei bambini morti nel Mediterraneo o lungo le rotte balcaniche». E anche «nel mar Egeo la metà di quanti sono annegati nei primi mesi del 2016 sono bambini. Non possiamo accettare che il Mediterraneo da mare nostrum divenga mare monstrum!».
Ecco allora che «la risposta cristiana» deve essere «carica di responsabilità e di speranza». Soffermandosi su questi due termini, il sostituto della Segreteria di Stato sottolinea anzitutto che «è possibile e doveroso farci carico della situazione». Non solo, è anche «possibile far giungere in sicurezza altri immigrati grazie ai corridoi umanitari», aggiunge lodando proprio l'iniziativa della comunità di Sant'Egidio, che ha anche offerto «un segno concreto di unità tra cristiani di diverse confessioni» attraverso il progetto-pilota per l'accoglienza di bambini malati, persone disabili, vedove di guerra con figli e anziani. Con l'auspicio «che progetti come questi o simili siano accolti e messi in pratica anche in altri Paesi».
E quanto al secondo termine, "speranza", l'arcivescovo Becciu spiega che essa si realizza seminando «accoglienza e mitezza laddove si spargono la zizzania della rabbia e il veleno del clamore populista». Anche perché «la speranza, fondata nel Signore risorto e alimentata dalla preghiera, ci spinge oltre, persino a sognare». E «sognare è necessario per non far svanire, sotto la spessa coltre del pessimismo, le attese di chi, vulnerabile e assetato di salvezza, si mette alla ricerca di una vita migliore». Insomma «sognare è condividere il futuro, animandolo di speranza».
Infine il sostituto confida che avendo accompagnato Papa Francesco nel suo viaggio all'isola greca di Lesbo, ha «potuto toccare con mano il dolore e la disperazione, le attese e le speranze che i rifugiati nel campo di Moira gli hanno trasmesso, e la commozione stessa del Santo Padre, che alcune settimane dopo, parlando a cinquecento bambini, affermava: "I migranti sono in pericolo, non sono un pericolo"». E conclude accennando al viaggio del Pontefice in Armenia per incontrare «un popolo che ha sofferto nella sua storia terribili privazioni e offese alla dignità umana».


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