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18 Abril 2015

Avrebbe potuto salvarsi, invece scelse di non fuggire: per questo è vero martire e merita l'aureola

Romero. Vescovo coraggio

 
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Una vulgata biografica dal taglio politico militante distingue nettamente il Romero arcivescovo dal Romero precedente. Ma egli non sentiva questa cesura nella storia personale. Mai Romero rinnegò quanto aveva creduto sin da ragazzo. I riferimenti a persone e fatti del suo passato, negli scritti e discorsi degli ultimi anni, restano intrisi di sentimento e commozione.
La notte in cui vegliò trepidamente il corpo di Rutilio Grande (il sacerdote amico ucciso in un agguato, ndr) sentì una chiamata al cambiamento nel senso di una nuova fortaleza («fortezza», ndr) non alla rottura con il suo passato di coscienzioso ecclesiastico. Romero arcivescovo non era un convertito sulla via di Damasco. Aveva un solido retroterra di fede, di dottrina, di affetti. Si era impegnato con grande serietà in ciascun incarico affidatogli, sino a quello di arcivescovo di San Salvador. Integrità sacerdotale e rigore ascetico l'avevano sempre contraddistinto. Aveva sensibilità cattolica universale, in un ambiente che tendeva a concentrarsi sulle questioni locali. Roma costituì per lui, sino alla fine della vita, un riferimento essenziale.
Se Romero fu sacerdote e vescovo romano, non fu tuttavia un vescovo dell'Occidente. È un dato storico da considerare da parte di chi ha considerato eccessive le sue prese di posizione contro le autorità pubbliche, o di chi ha avvertito scarsamente ecclesiastica la sua insistenza sui diritti umani. Il Salvador negli anni Settanta era retto da un regime militare che applicava una variante locale dell'ideologia della sicurezza nazionale, a favore di un'oligarchia economicamente dinamica ma politicamente reazionaria. La democrazia, garantita in linea di diritto dalla Costituzione, era negata nei fatti. Vigeva un tacito accordo nella classe dirigente per cui le leggi, se del caso, erano ignorate nella vita politica e nel mercato del lavoro. Le elezioni erano una sorta di frode istituzionalizzata. I salari minimi legalmente garantiti non venivano pagati. Che vi fosse allora in Salvador una carenza di giustizia e democrazia, tale da provocare fondate reazioni di protesta, è stato successivamente ammesso anche da leader della destra oligarchica.
Romero non s'ispirò a una dottrina politica alla moda per contrastare un regime iniquo, cioè la dittatura dei ricchi e dei militari che era il Salvador del suo tempo. Non si doveva essere rivoluzionari per desiderare la caduta di un governo che agiva in spregio della stessa Costituzione e legge comune dello Stato. L'azione di Romero si fondava su una visione etica e religiosa della realtà. Secondo il suo pensiero, per risolvere davvero i problemi del Paese non sarebbe bastata una dottrina politica e neppure la dottrina sociale della Chiesa. Occorreva la conversione dei cuori.
Romero fu vescovo nella cruenta America Latina del suo tempo. Non fu vescovo in un Paese dell'Occidente politicamente corretto. In questo senso, Romero è difficilmente comprensibile secondo categorie logiche occidentali. Fu un vescovo con alto senso di responsabilità, che si commuoveva dinanzi al sangue versato. Lo si è catalogato politicamente. Ma non occorreva, per commuoversi e aver pietà, essere di sinistra o essere di destra. Romero non era un cartesiano, non era un politico, ma un uomo d'intensi sentimenti e di preghiera che viveva la storia come cammino verso Dio.
La beatificazione di Romero da parte della Chiesa cattolica riconosce il suo martirio in odium fidei. Per coloro che gli furono nemici in vita, Romero sarebbe stato ucciso in odio alle sue posizioni politiche. Tuttavia, è difficile sostenere che Romero, vescovo ucciso all'altare, durante una liturgia eucaristica, non sia stato colpito in odium fidei. Era per fede che Romero parlava di riconciliazione, amava i poveri e chiedeva giustizia sociale. Era per fede che invitava alla conversione e indicava il «peccato» dei suoi contemporanei: questo era il kerigma, il cuore dell'annuncio evangelico, come diceva nella predicazione. Era per fiducia nel Vangelo che Romero non si mise al riparo dalle minacce, non abbandonò i suoi fedeli, non si ritirò, ma accettò la morte che sapeva ormai sicura. Romero è un martire del Vangelo, ucciso in odium fidei.
Indubbiamente Romero avrebbe potuto sfuggire alla morte. Come tanti martiri prima di lui, Romero fu fedele alla sua missione. Non fuggì. L'odium verso Romero era reale. Si pensi alle tante minacce di morte. O alla diffamazione sistematica contro di lui sulla stampa di estrema destra. Poiché Romero parlava di giustizia sociale veniva accusato di essere comunista. Lo si derideva come «Marxnulfo», giocando sul suo secondo nome, Arnulfo, sebbene avesse sempre ritenuto che il comunismo fosse un male. Nel 1979, anno del trionfo di Khomeini in Iran, lo si chiamò «l'Ayatollah salvadoregno», per bollarlo come fanatico agitatore delle masse e istigatore all'odio di classe. Era odium per la maniera in cui Romero viveva il Vangelo e per il suo essere vescovo. Insieme a Romero era odiata, e perseguitata, la Chiesa, in quanto chiedeva giustizia, pace, riconciliazione. Per essere uccisi, nelle campagne salvadoregne, bastava avere una Bibbia. O recarsi in chiesa a pregare.
La passionale discordanza di reazioni attorno alla figura di Romero ha posto alla Chiesa cattolica, impegnata a verificarne i requisiti per la canonizzazione, una questione di opportunità. È esistito un mito politico di Romero che non ha aiutato il superamento dei pregiudizi su di lui quale agitatore di folle, incitatore alla sovversione, fanatico del successo mediatico. La glorificazione di un Romero «martire del popolo», nei termini della guerriglia, a lungo ne ha imprigionato la figura nella temperie della guerra civile salvadoregna e dello scontro tra destra e sinistra. Lo si è già notato: Romero si ritrovava accomunato a Camilo Torres, «Che» Guevara, Salvador Allende e altri «martiri», laddove per martirio s'intendeva il morire con la mitraglietta in nome del popolo. Il mito ha rinchiuso Romero nella gabbia degli scontri ideologici della sua epoca.
Romero fu accusato di esorbitare dalle sue funzioni e di fare politica. Le sue parole autorevoli avevano un'impetuosa ricaduta politica, ma egli non si compromise con nessun partito o fazione politica, ligio com'era alla disciplina della Chiesa in questa materia. Fu accusato di fomentare la violenza, eppure soffrì della violenza diffusa nel Paese e tentò di porvi rimedio, condannandola da qualunque parte venisse. Fu accusato di essere un sovversivo e in realtà invocò l'osservanza delle leggi e della Costituzione, in cui trovava le norme che, se applicate, avrebbero portato giustizia nel Salvador. Fu accusato di essere un estremista e certamente fuoriuscì dai binari di un comportamento ordinario, ma lo fece nel rappresentare alto e forte il bisogno diffuso di giustizia. Romero non voleva abdicare alla sua missione pur di avere salva la vita. Al di là degli affetti e delle avversioni di cui fu oggetto, dei suoi successi e delle sue sconfitte, dei suoi slanci e dei suoi limiti, Romero fu un uomo che antepose l'esser cristiano alla salvaguardia della propria vita.
BIOGRAFIA. SARÀ BEATO IL 23 MAGGIO
Alla vigilia della beatificazione, voluta da papa Francesco per il prossimo 23 maggio e resa possibile dal riconoscimento del martirio «in odium fidei», lo storico Roberto Morozzo della Rocca, che ha collaborato come esperto al processo canonico, firma per le Edizioni San Paolo la biografia ufficiale dell'arcivescovo di San Salvador, ucciso il 24 marzo 1980 da uno squadrone della morte mentre celebrava all'altare; il volume «Oscar Romero» (pp. 280, euro 14,90, prefazione di Andrea Riccardi) è in libreria in questi giorni e ne presentiamo qui le conclusioni. La biografia ripercorre tutte le tappe della vita del presule, dalla povera giovinezza agli studi compiuti a Roma, fino all'impegno come primate di un Paese dilaniato dalla violenza politica.


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