Comunità di Sant’Egidio, Francia
|
L’ 11 gennaio scorso, una manifestazione gigantesca di milioni di persone ha attraversato Parigi e molte altre città della Francia e del mondo per dire NO al terrorismo che aveva poco prima ucciso 17 persone nella capitale francese. I terroristi, i fratelli Cheif e Said Kouachi e Amedy Coulibaly, erano tre giovani di circa 30 anni, nati, cresciuti ed educati in Francia. Tra le loro vittime si trovavano uomini e donne di tutte le età, di tutte le origini culturali e di tutte le credenze e convinzioni religiose. Una grande diversità che corrisponde alla grande diversità che compone la società francese di oggi, nella quale un francese su quattro proviene dall’ immigrazione.
Il terrorismo oggi attacca la convivenza scegliendo degli obiettivi simboli del pluralismo, come l’ipermercato Hypercacher di Porta di Vincennes, dove va a fare la spesa la grande comunità ebraica dell’ est di Parigi. La scelta dei mercati in Nigeria, dei luoghi di preghiera in Pakistan, dei treni e di altri luoghi di assembramento, è sempre la scelta di colpire la convivenza, la vita insieme... Il terrorismo punta contro i luoghi e i testimoni della convivenza, come le minoranze etniche e religiose, e noi pensiamo alla città martire di Aleppo in Siria, spazio multisecolare di coabitazione oggi abbandonato alla distruzione e alla morte.
Ma questo terrorismo che minaccia la convivenza è anche lui stesso frutto della crisi della convivenza e della mondializzazione. Il processo di radicalizzazione all’opera oggi nelle periferie delle nostre grandi città si sviluppa in effetti in tutte le periferie in cui crescono i sentimenti di abbandono, di inutilità, di sradicamento. È un problema di dimensioni mondiali. Come ha mostrato Olivier Roy, i jihadisti di Parigi, come gli autori della fucilata al liceo Columbine nel 1999 negli USA sono giovani che si persono in una stessa violenza autodistruttiva. In Oriente come in Occidente, egli dice: “c’è una gioventù affascinata da questo nichilismo suicidario”. Una gioventù che egli descrive come “militanti di un mondo globale, nomadi, sradicati”.
Per comprendere la minaccia che pesa sulla convivenza (il vivere insieme) oggi è necessario comprendere meglio la mondializzazione e il suo grande paradosso: la mondializzazione fonda nuovi legami e rompe legami antichi, unisce e isola allo stesso tempo, in uno stesso movimento contraddittorio, che è allo stesso tempo strutturante e destrutturante.
Della crescente unificazione del “villaggio globale” in una società e in un “avvitamento umano” inesorabile, già anticipata da Theillard de Chardin il secolo scorso, non è necessario parlare ancora. Essa sta vivendo un processo di accelerazione, come rivela lo sviluppo delle megalopoli. L’agglomerazione parigina (Parigi e le sue periferie) ha raddoppiato il suo numero dalla fine della seconda guerra mondiale e il fenomeno sta continuando (11,8 milioni di abitanti secondo l’ultimo censimento del 2011). Senza parlare dell’accelerazione della società virtuale attraverso i social media.
Ma a questa unificazione si accompagna, per effetto di una grande mutazione antropologica, un crescente isolamento dei popoli, dei gruppi e degli individui. Nella sua enciclica Laudato si’, il papa Francesco parla di “antropocentrismo smisurato e deviato” per qualificare questa mutazione che, lo cito: “oggi continua a minare ogni riferimento a qualcosa di comune e ogni tentativo di rafforzare i legami sociali” (LS 116).
Sul grande palcoscenico del mondo globalizzato, la vita diventa dunque sempre più individuale e le forme di vita comunitaria, familiare, o solidale sono sempre più secondarie in rapporto a quella individuale. Questo fenomeno e le sue consequenze non sono state ancora del tutto comprese e prese sul serio. In Francia si è cominciato solo da qualche anno a misurare il fenomeno della solitudine e si stima che oggi il numero di persone totalmente isolate, senza relazioni sociali o amicali o familiari o professionali, ammonti a 5 milioni. Tra queste persone, un francese su otto, si trovano anziani, giovani, malati, persone fragili.
Ridotti ad individui, l’uomo e la donna contemporanei, soprattutto i giovani e le giovani, sono lasciati in una solitudine e in una vita isolata esasperante, esposta ad ogni paura, ad ogni ripiegamento identitario, ai furori e ai fanatismi di ogni tipo.
Ma torniamo a parlare dell’11 gennaio 2015. Recandosi nella celebre Place de la Republique, punto di partenza della marcia repubblicana, i francesi e con loro i leaders politici europei e mondiali, hanno voluto opporre alla logica della paura e della divisione il semplice gesto di raccogliersi insieme in un momento di comunione. Ed è ad una delle più alte tradizioni della convivenza che essi hanno voluto far riferimento: quella della Rivoluzione Francese.
La Rivoluzione del 1789 resta in effetti uno dei tentativi storici più clamorosi di instaurare in modo radicale, a livello nazionale ma con un’ambizione universale, un più alto livello di convivenza. Per i rivoluzionari del 1789 privilegi, diseguaglianza dei diritti, separazione nelle classi sociali, ingiustizie e povertà dovevano lasciare il posto a libertà, uguaglianza e fraternità, che sono il motto della Repubblica.
Sulla realizzazione effettiva di questo progetto di società si potrebbe discutere, ma non è questo il luogo. Il fatto è che, per i rivoluzionari francesi, la risposta alla domanda: “È possibile vivere insieme oggi?” era: “Si” e, dopo il 1789, il benessere di tutti passa attraverso il rispetto dei diritti dell’uomo, del cittadino, che sono diventati diritti universali nel 1948. Tra i quali, al primo posto, c’è il diritto secondo il quale “gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti”. Dal 1791, quando la Francia fu la prima nazione ad attribuire la piena uguaglianza di diritti agli ebrei con il voto dell’assemblea costituente, fino ai giorni nostri, la forza del simbolo è rimasta intatta.
Nel 2007 nel suo libro intitolato Convivere, Andrea Riccardi interpretava in maniera premonitrice la rivolta delle periferie francesi che era avvenuta agli inizi degli anni 2000, come uno “choc di civiltà” primario: da un lato la Francia con i suoi simboli, dall’ altra la reazione della ribellione”. E Andrea Riccardi continuava: “I giovani sono soli, senza lavoro, senza speranza. La rivolta si inscrive in un certo senso in una tradizione di rivolte che ha caratterizzato la storia francese... Ribellandosi, i giovani della periferia si creano un’identità elementare, in reazione a una marginalizzazione in una società in cui si sente sempre più il peso della diseguaglianza. È una rivolta di giovani contro una società “vecchia”.
Durante la sua visita alla Comunità di sant’Egidio, nella basilica di Santa Maria in Trastevere il 15 giugno 2014, il papa Francesco ha utilizzato lo stesso aggettivo per qualificare - come farà anche a Strasburgo davanti al Parlamento europeo – un’ Europa “stanca” e “vecchia”. Un’Europa in cui “la crisi è così grande, ha detto il papa, che si mettono i giovani allo scarto quando pensiamo a quei 75 milioni di giovani di 25 anni e meno che sono “né né”: né lavoro, né scuola, essi sono senza. È quello che succede oggi in questa Europa stanca”.
Ma in questi giorni, questi ultimi mesi, le vergognose tergiversazioni dell’Europa davanti all’arrivo dei rifugiati che provengono dal Medio Oriente e dall’Africa, non sono forse anche esse il sintomo della stanchezza dell’Europa e della sua rinuncia alle sue radici e agli ideali della sua giovinezza? Per lo storico Benjamin Stora “l’Europa è entrata in una fase di rottura con la tradizione umanista”.
In queste condizioni, gli ideali di comunione, francesi ed europei, non sono ormai che dei simboli? E noi ci chiediamo: È possibile ancora convivere?
Questa domanda ce la poniamo oggi, qui a Tirana, giovane paese ai margini di un’ Europa “vecchia”, che mostra un bellissimo esempio di coabitazione tra cristiani (ortodossi, cattolici ed evangelici) e musulmani (sunniti, ma anche bektashi, che è una forma particolare di Islam albanese). Bisogna sostenere i paesi in cui c’è oggi una coabitazione tra cristiani e musulmani. L’Albania è in Europa e noi conosciamo la grande presenza dei musulmani in Europa, è dunque importante vedere come funziona il modello albanese. Grazie, signor sindaco per la vostra accoglienza calorosa.
L’Europa, al vertice della mondializzazione con la sua incredibile unificazione dal 1957, è un modello per gli altri continenti, il che la rende attrattiva agli occhi di molti migranti. Si, l’Europa sta diventando, come gli USA, una zona di immigrazione permanente. È non si tratta della fine del mondo! È una grande occasione, se se ne fa il sogno di un popolo. Per questo, bisogna aprire l’ uomo e la donna alla speranza di un’ Europa piu` inclusiva. Cominciando dalle nostre citta` e dalla nostre comunita`. “ho trovato una famiglia”, testimonia Mohamed sulla sua pagina Facebook, accolto dalla Comunità di Sant’Egidio al suo arrivo sulle coste della Sicilia due anni fa. Oggi è parigino, questo giovane musulmano originario del Mali, della regione del sud del Mali, Kayes, da cui provengono emigrati da decenni, è ormai un nuovo europeo, membro attivo del movimento dei Giovani per la pace della nostra comunità, coinvolto attivamente in un servizio agli anziani. No, l’Europa non è condannata al ripiegamento su di sé, alle seduzioni dei nazionalismi e dei populismi, al destino grigio e senza sbocco che è quello degli uomini e delle donne ricchi e soli.
Al di là del simbolo, e per concludere, io direi che quello che ci insegna il successo (soprattutto quello europeo con la presenza di molti capi di Stato dell’Unione) della marcia repubblicana dell’11 gennaio 2015 in Francia, è che una risposta costruttiva, forte e capace di mobilitare la crisi del vivere insieme è possibile e che essa dovrebbe essere culturale, universale e concreta.
Cominciamo dal carattere concreto e sottolineiamone l’importanza per vivere insieme, di riunirsi concretamente, in un luogo, di toccarsi, di parlarsi, di incontrarsi. Questa evidenza trascurata dai nostri modi di vita accelerati è tuttavia una saggezza nel cuore di ogni “comunione umana”. Per il cristianesimo in particolare la distruzione della prossimità è inaccettabile. Al contrario la fraternità la prossimità con i poveri, la comunione fra le persone sono dei valori indispensabili mentre la solitudine è un limite da superare. Il monaco trappista Thomas Merton affermava: “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso, ogni uomo è parte di un continente, una parte del tutto”. È possibile risvegliare il gusto della compagnia, dell’“essere insieme” condizione precedente a ogni convivenza importante. Questo gusto è quello della festa, dell’aiuto reciproco, della solidarietà verso chi soffre, è anche il gusto del dialogo e di quel dialogo particolare e intimo che è la preghiera, quando la solitudine irriducibile di ogni essere si fa incontro con Dio. La crisi antropologica dell’uomo globalizzato denunciata da Papa Francesco nella sua enciclica è prima di tutto descritta come una “dismisura “ dell’uomo divenuto centro di se stesso, nel rifiuto di quella conversazione che è la fonte di ogni conversazione: la conversazione dell’uomo con il suo creatore, che è la preghiera.
La convivenza è una pratica concreta che deve divenire cultura. L’indomani dell’attentato dell’Hypercacher di Porte de Vincennes, i Giovani per la Pace della Comunità di Sant’Egidio di Parigi hanno deciso di andare insieme, concretamente, davanti alle porte del supermercato per deporre una corona di fiori. Diverso da uno slancio emotivo, questo gesto simbolico vissuto insieme è stato il frutto di di una convivenza concreta vissuta da diversi anni soprattutto attraverso un servizio quindicinale ai senza fissa dimora del Bois de Vincennes che era vicino, un servizio che nel tempo è divenuto cultura. Quel giorno il cammino pacifico e responsabile dei Giovani per la Pace, comunità di giovani uniti dall’amicizia e dalla cultura della solidarietà con i poveri, è stata una risposta diretta e visionaria rivolta allo scatenarsi della violenza di “un giovane lupo solitario”.
Bisogna quindi che oggi cresca questa cultura dell’amicizia con i poveri, questa cultura della compassione e della tenerezza, unica alternativa alla cultura ormai dominante che è, per riprendere le parole di Papa Francesco, la cultura dello “scarto”. Nella sua esortazione apostolica La gioia del Vangelo, Papa Francesco descrive così questa cultura: “Oggi, tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, delle grandi masse di popolazione si vedono escluse e marginalizzate: senza lavoro, senza prospettive, senza via di uscita. Si considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può utilizzare e in seguito gettare. Noi abbiamo messo in uso la cultura dello scarto che è anche promossa”. E il Papa precisa: “Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive”.
Dato che è diventata una cultura e che essa impregna la vita e la mentalità di ognuno di noi, la cultura dello scarto non può essere combattuta che attraverso l’emersione, in mezzo ad un popolo largo, di una nuova cultura universale di amore verso chi è diverso: lo straniero, il vecchio, il giovane, il malato, il povero. Tessere nuovamente i legami di appartenenza comune con colui o colei che non valgono nulla dal punto di vista economico è il solo antitodo al veleno dell’esasperazione.
Terminerò con le parole di Papa Francesco durante la sua visita, a Roma, alla sede della Comunità di Sant’Egidio nel giugno 2015: “Andate avanti su questa strada: preghiera, poveri e pace. E camminando così aiutate a far crescere la compassione nel cuore della società – che è la vera rivoluzione, quella della compassione e della tenerezza – a far crescere l’amicizia al posto dei fantasmi dell’inimicizia e dell’indifferenza”.
Si, vivere insieme è possibile. È anzi la vera rivoluzione! Quella che pazientemente e ostinatamente fa crescere la compassione e la tenerezza.
|