Governatore onorario della Banca di Francia
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Memoria e profezia: l’eredità di Giovanni Paolo II
Michel Camdessus
Cracovia, 7 settembre 2009
Come oserò parlare di Giovanni Paolo II in questo luogo che l’ha visto operare da pastore e profeta e che conserva la sua memoria come un tesoro dal quale ”trarre fuori cose nuove e cose antiche…”?
In particolare dopo aver ascoltato parlare quelli che sono stati i suoi fratelli nell’Episcopato e i suoi collaboratori più vicini, non posso esprimermi che come un laico cristiano che è stato attento alla sua parola e ai suoi gesti, che ha cercato di ispirarvisi se pur inadeguatamente e ha avuto la fortuna di incontrarlo due volte nel momento in cui, riflettendo sulla così dolorosa storia recente del suo paese e dell’Europa dell’Est, voleva sollecitare gli sforzi di sostegno internazionale a quei paesi ma anche trarre insegnamento da quell’esperienza per il presente e per il futuro. E’ dunque in questo doppio esercizio di memoria e di profezia, o piuttosto di memoria per la profezia, che egli ci riunisce qui oggi.
Lasciatemi dire qualche parola riguardo quel che io intendo per memoria e profezia, di quello che io considero il “metodo di Giovanni Paolo II”, e presentarvi alcune modeste riflessioni sulla sua attualità di fronte alla crisi dei nostri giorni.
I. Memoria e profezia
Posso essere breve sulla memoria poiché i nostri contemporanei ne riscoprono oggi l’importanza. Il “dovere della memoria” è richiamato in diverse circostanze. Ce ne potremmo rallegrare se ciò non corrispondesse a una grande timidità davanti al futuro. Bisognerebbe anche lavorare molto per esercitare il dovere di memoria nell’obiettività necessaria, in quell’ascesi che ci chiama a far nostro, nel dialogo, il racconto della nostra stessa storia da parte di quelli che sono stati per lungo tempo i nostri avversari.
Non avviene lo stesso per la profezia. Nella storia, gli uomini, ivi compresi i nostri contemporanei, ne hanno avuta un’idea limitativa: vedono nei profeti degli annunciatori dell’avvenire, degli indovini, predicatori di buone notizie, poco più credibili di quelli che, agli angoli delle nostre strade, fanno commercio della credulità popolare. Ora, noi lo sappiamo bene, il profeta è tutt’altro personaggio: è un uomo che attinge alla preghiera un’esperienza immediata di Dio, che vi scopre un senso vivo della sua santità e delle sue volontà; è alla luce di questa esperienza che egli può giudicare il presente. Egli si abbevera alla preghiera per ricordare agli uomini la vera chiave della loro felicità, per discernere le vie di un futuro che spetta a loro costruire sotto la guida dello Spirito.
Insomma, il profeta non è né Nostradamus né un astrologo qualsiasi; egli non pretende di annunciarci un futuro che dovremo subire, ma decifra la nostra storia, penetra il nostro presente, spazza via i nostri conformismi o le nostre illusioni per incitarci a correggere le nostre vie e a costruire un futuro migliore. Con l’unica eccezione delle profezie messianiche o escatologiche, l’insegnamento profetico non riguarda un avvenire lontano ma è parola per il presente. Inutile aggiungere che il profeta non si lascia impacciare da formule criptiche, ma parla a voce alta e chiara, impegnando le persone e le folle, percorrendo Ninive in tutti i sensi, invitando non alla separazione ma alla conversione… e prima di tutto a non aver mai paura! Riconosciamo qui in maniera molto evidente la figura di Giovanni Paolo II.
II. Il metodo di Giovanni Paolo II
In realtà, il “fare memoria” è nel cuore di tutte le tradizioni religiose mondiali. E’ il gesto originario quando la chiesa si riunisce per celebrare l’Eucaristia e la Santa Cena. In Giovanni Paolo II c’era una profonda armonia fra la sua personalità profonda e questa missione.
Forse è questa la prima cosa che il mondo ha scoperto in lui. Era un uomo abitato dalla storia. Soprattutto quella del suo paese, che amava da patriota, della quale aveva vissuto il calvario nella speranza e dalla quale traeva degli orientamenti fondamentali per i cristiani del mondo intero, e prima di tutto questo: “Non abbiate paura…”. Sono quelle parole che lui poteva pronunciare con un tono di autenticità unico perché erano quelle di uno degli attori di quella lunga traversata delle tenebre, della resistenza a un sistema dichiarato di materialismo ateo.
Voi particolarmente ne siete testimoni, voi cattolici polacchi che avete partecipato alla sua pastorale diocesana e siete stati rimessi in movimento dalla sua parola e i suoi gesti in occasione dei suoi viaggi, il cui impatto storico non c’è bisogno di sottolineare ulteriormente.
Ma questo vale ugualmente per tutti i paesi che ha visitato, il suo metodo era ovunque lo stesso: rileggere la storia del paese per ritrovarvi i germogli del rinnovamento necessario e i segni di una speranza. Questo è ciò che avvenne in Francia. I Francesi non hanno dimenticato la sua domanda: “Francia, che cosa ne hai fatto del tuo battesimo?” E ci ricordiamo che, dopo il primo viaggio nel quale ci aveva messi di fronte a questo interrogativo, egli era tornato a celebrare il quindicesimo centenario di questo battesimo, identificato con quello del re Clodoveo.
In occasione del suo primo viaggio, del resto, aveva avuto un memorabile incontro con i giovani, nel corso del quale si era espresso in tono molto familiare sulla storia dei nostri rispettivi paesi, ricordando ai giovani francesi che – cito – “la Francia potrebbe apprendere diverse cose [dalla storia della Polonia]. La Polonia non ha avuto una storia facile, particolarmente nel corso degli ultimi secoli. I polacchi hanno pagato, e non poco, per essere polacchi, e anche per essere cristiani… Questa risposta è autobiografica, me ne scuserete!”
In effetti, noi qui tocchiamo con mano quello che potremmo chiamare il metodo Giovanni Paolo II: meditare la storia antica o recente nella sua verità, avvicinandola il più possibile, per trarne lezione e illuminare un cammino di conversione e di avanzamento verso una civiltà dell’amore. Una delle applicazioni più sorprendenti si trova nel suo invito a una rilettura della storia per discernere gli errori di ieri, esprimere il pentimento della Chiesa e aprire le porte della riconoscenza reciproca, del perdono e della riconciliazione fra tutte le forze spirituali che lavorano all’unità dell’umanità.
Si potrebbero trovare molti altri esempi del ricorso a questo metodo.
Ne citerò due che mi sembrano particolarmente emblematici: l’enciclica Centesimus
Annus e la commemorazione dei martiri del XX secolo.
L’enciclica, ce lo ricordiamo, s’apre con una meditazione su quello che fu l’anno 1989…
TESTO DA COMPLETARE (da M. Camdessus)
La Comunità di Sant’Egidio conserva un ricordo molto vivo della commemorazione dei martiri del XX secolo poiché Andrea Riccardi fu incaricato in maniera particolare, in seguito al lavoro della Commissione dei Nuovi Martiri, di presentare al pubblico i risultati di un immenso lavoro di memoria riguardante tutte le diocesi del mondo, suggerito da Giovanni Paolo II nella Tertio Millennio Adveniente. Ma questo lavoro di memoria non era un semplice atto di giustizia, né un semplice atto di riconoscenza per il sacrificio di questi martiri. Era tutto orientato dalla preoccupazione del Santo Padre di far comprendere ai cristiani e a tutti gli uomini che una società fraterna, una società rispettosa dell’uomo, si costruisce a prezzo dell’impegno di ciascuno in una scelta di sobrietà, nel servizio inventivo dei nostri fratelli, nell’animazione delle strutture pubbliche, a volte, nelle condizioni di tirannia, fino al sacrificio supremo. Il mondo non può addormentarsi in un relativismo sdolcinato, una civiltà dell’amore può costruirsi solo se degli uomini di fede hanno il coraggio di smascherare la bestia e di opporre la debolezza delle loro mani nude agli inganni, alle suggestioni e alle violenze dei poteri tirannici e del vitello d’oro.
La memoria del sacrificio dei martiri è dunque un luogo decisivo di incontro della storia e della profezia. Un pontefice come Giovanni Paolo II non poteva che ricordarcelo, lui che aveva attraversato questi drammi della storia, incontrato quei testimoni e che, nella sua lucidità profetica, era particolarmente consapevole delle minacce che continuavano a pesare sull’uomo nel momento stesso in cui crollava il totalitarismo col quale si era confrontato fino allora.
In lui – e questo è proprio dei profeti – memoria e profezia erano gemelle. Potremmo dire che si abbracciavano, come canta il Salmo 84 della Giustizia e della Pace.
Potrei fermarmi qui, se non avessi promesso di far riferimento alle occasioni nelle quali ho potuto accorgermi personalmente di questa sua tensione fra memoria e profezia.
In effetti, egli mi invitò a incontrarlo in due occasioni, proprio in ragione del ruolo che il Fondo Monetario Internazionale era chiamato a giocare in funzione dei suoi statuti e soprattutto, a partire dal 1989, per il sostegno ai paesi dell’Est nella transizione verso l’economia di mercato. La nostra conversazione fu un’espressione diretta del metodo che ho appena illustrato. Mi ha parlato a lungo dell’esperienza del suo paese, della frustrazione dei suoi compatrioti per la mollezza o l’impotenza delle grandi democrazie di fronte all’ascesa dei grandi totalitarismi e infine alla collusione, dopo la fine della guerra, con quella che egli chiamava la vergognosa spartizione di Yalta che abbandonava i paesi dell’Est all’influenza sovietica per 40 anni. Così si è potuto instaurare un regime sotto il quale (sono le sue parole) “la Polonia ha rischiato di perdere la sua anima…” e anche, aggiungeva, nel quale la pesante mano dello Stato insteriliva ogni creatività, ogni iniziativa. Dovevamo fare dunque tutto il possibile per alleviare le sofferenze di questi popoli, assisterli nel processo di transizione e di recupero . Egli rivolgeva un’attenzione puntuale alle modalità di aiuto che venivano messe in opera e non posso impedirmi di pensare che trovava lamentevolmente limitati e cauti gli aiuti che noi riuscivamo faticosamente ad attivare. Ma il suo sguardo si volgeva più lontano e, anche se non riesco a citare una per una le sue parole, il suo messaggio era chiarissimo; sarebbe d’altronde risuonato con forza nella Centesimus Annus: bisognava che l’occidente e le istituzioni mondiali stessero in guardia ed evitassero che le seduzioni di un altro materialismo, che egli individuava nel consumismo e nell’economismo occidentali, venissero semplicemente a sostituire il materialismo isterilente che era stato per tanto tempo il destino di questo paese.
Questo linguaggio, bisogna proprio dirlo, non era tenuto in gran conto da molti in un’época in cui si ascoltavano piuttosto altre voci che, come quella di Fukuyama, annunciavano semplicemente la fine della storia con l’alleanza della democrazia e del mercato e invitavano a sognare un “nuovo ordine mondiale” costruito su queste basi, che abbiamo visto cambiare bruscamente direzione prima con l’11 settembre e, soprattutto, con la profonda crisi che attraversiamo oggi e che trova la sua origine profonda nell’indifferenza all’avvertimento contenuto in quella profezia del Papa e nell’abbandono del mondo a una cultura del possedere.
Avvertimento profetico, dicevo, che ci invita alla conversione e alla costruzione di un futuro, quello di una civiltà dell’Amore, opposto a quello cui chiama la seduzione del dio-denaro: potremmo semplicemente riassumere così il cuore dell’insegnamento sociale di Giovanni Paolo II fino al suo ultimo giorno.
Sappiamo purtroppo che la globalizzazione, che egli giudicava in sé né buona né cattiva e che chiedeva di animare con una mondializzazione della solidarietà, ha visto gli uomini sotto tutte le latitudini abbandonarsi a questa nuova idolatria. Noi ne vediamo oggi le conseguenze. Di fronte a una tale situazione, il messaggio profetico di Giovanni Paolo II risuona di nuovo nell’enciclica “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI, così solidamente radicata negli insegnamenti dei suoi predecessori. Globalizzazione della solidarietà, richiamo al ruolo centrale del dono nella costruzione di ogni legame sociale durevole, richiamo alla fraternità e incitamento pressante all’elaborazione di un’etica mondiale per un mondo che diviene uno…
Memoria e profezia si ricongiungono ancora per invitare noi tutti, uomini di fede e di religione, ad apportare al mondo con un’etica mondiale quest’anello mancante essenziale per una pace e uno sviluppo durevoli. È proprio a questo che è urgente lavorare insieme, nella ricca diversità delle nostre tradizioni e nella preoccupazione comune di strappare l’uomo ai suoi idoli e di accompagnarlo su un cammino di fraternità.
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