Comunità di S.Egidio


Patriarcado
de Lisboa


26 settembre 2000
Centro Cultural de Bel�m - Sala Calempluy
Tavola Rotonda
Giustizia e/o riconciliazione

Dan V. Segre
Institute for Mediterranean Studies, Svizzera

 

In Medio Oriente, sui termini "giustizia" e "riconciliazione" pesa un carico di significati e di malintesi.
Per esempio, l'espressione "pace giusta" � spesso utilizzata dagli arabi come grido di guerra. Il termine "riconciliazione", poi, - la cui etimologia significa ritorno ad un'intesa precedente - diventa un controsenso se applicato alla crisi araboisraeliana. Non c'� mai stato un periodo di conciliazione fra sionismo ed arabismo, nonostante le dichiarazioni di fraternit� contenute nell'accordo firmato ad Akaba nel 1919 dall'emiro Feisal, leader della rivolta araba contro i turchi, e da Chaim Weizmann, presidente dell'organizzazione sionista.
Ci� fa nascere due domande:
- perch� non vi � stata conciliazione, finora ?
- si pu� prevedere conciliazione e giustizia in Medio Oriente?
La causa principale del conflitto risiede nella difficolt� provata da tutti - arabi e non arabi - ad accettare la specificit� d'Israele, che costituisce uno degli aspetti, per cos� dire, genetici del popolo ebreo.
Alla radice della particolarissima identit� ebrea si trova innanzi tutto una scelta divina determinata dalla "passione (di Dio) (heshek)" per la "debolezza" del popolo ebreo (Deuteronomio VI, 7).
Poi, la Bibbia sottopone la sopravvivenza di questo popolo in terra d'Israele a due condizioni: una condotta morale e, secondo la profezia di Bilaam, la ferma volont� degli ebrei di "restare un popolo solitario, che non fa parte delle nazioni" (Numeri 23.9).
Strana condizione questa, che ha fatto scorrere fiumi d'inchiostro nei commentari biblici e talmudici, e che esprime una vocazione politica di non ingerenza. E' il primo caso storico in cui un Dio nazionale, unico ed universale propone una strategia di sopravvivenza politica fondata sulla neutralit�, strategia peraltro sostenuta dai profeti (Geremia XXII, 13, 17-19; Isaia 1: 27 e 31; Ezechiele 17: 15).
Nell'era moderna, se ne trova un eco in Altneuland, libro avveniristico del fondatore del sionismo, Th�odore Herzl. Ma fu all'ONU, nel 1949, che l'idea della non ingerenza negli affari delle altre nazioni fu ripresa dal ministro israeliano degli affari esteri, Mosh� Sharet, in un discorso di presentazione della politica estera del nuovo stato. Per definire tale politica, Sharet coni� perfino un termine ebreo: i-isdaut, non identificazione.
La strategia israeliana di non identificazione non fu applicata a causa della guerra fredda, che obblig� Israele ad allinearsi dalla parte degli Stati Uniti dopo lo scoppio della guerra di Corea, a partire del 1951.
Vent'anni dopo, l'idea fu ripresa, provocatoriamente, da Nahoum Goldman, presidente del Congresso Mondiale Ebreo, in un articolo pubblicato da Foreign Affairs con il titolo "L'avvenire d'Israele": vi proponeva la neutralizzazione d'Israele, non la sua neutralit�, cosa che sarebbe stata inaccettabile, all'epoca, dal governo di Gerusalemme.
Ma c'era anche una ragione ideologica a tale rifiuto. Lo scopo del sionismo non era la creazione di uno stato ebreo, ma di uno stato degli ebrei, uno stato "normale, come gli altri": il movimento nazionale ebreo sperava di eliminare l'unicit� ebrea in quanto legata alla diaspora, di porre fine al carattere sacro della nazione con la creazione della prima comunit� ebrea laica della storia. Era, se volete, la versione ebrea della rivoluzione francese, con un secolo e mezzo di ritardo, mista ad un po' del nazionalismo romantico italiano del Risorgimento e del moralismo russo tolstoiano.
L'indipendenza ebrea � stata realizzata, ma la laicizzazione degli ebrei in Israele incapp� in molti ostacoli, al pari d'altri tentativi di trasposizione dei principi dell'89 fuori d'Europa. La situazione si � complicata per il fatto che il trionfo del sionismo politico, invece di risolvere la "questione ebrea", vi aggiunse una "questione palestinese". Israele resta dunque pi� specifica che mai, e la crisi araboisraeliana ha fatto nascere un simbolismo conflittuale disastroso ed unico nel suo genere.
Dal punto di vista territoriale, ideologico e demografico, la lotta tra ebrei ed arabi per il possesso della Terra Santa non � pi� grave - ed � certamente molto meno sanguinosa - di tanti altri conflitti nazionalisti o tribali del nostro tempo, soprattutto se lo si paragono alle guerre religiose e nazionali in Europa. Dal punto di vista simbolico, invece, questa lotta ha assunto dimensioni cosmiche.
Situata geograficamente tra l'Asia, l'Europa e l'Africa, Israele non fa parte d'alcun continente. La sua lotta per l'esistenza e l'indipendenza � l'unica fra i conflitti nazionali che si sia simbolicamente trasformata in lotta dei ricchi contro i poveri, dell'Occidente contro l'Oriente, della teocrazia contro la democrazia, dei colonialisti contro i colonizzati, dei razzisti contro gli antirazzisti, del male contro il bene, del "piccolo Satana" contro i veri dei.
Come fare per promuovere conciliazione e giustizia in una tale situazione di parossismo simbolico, che sfiora il ridicolo quando i sovietici denunciano i cinesi come "sionisti" ?
Mi sembra che bisogni cercare risposte e possibili soluzioni altrove che nei sistemi politici e diplomatici attuali.
Per ci� che riguarda l'informazione - o piuttosto, la disinformazione - il primo compito di conciliazione mi pare sia permettere agli ebrei di demitizzare il sionismo e agli arabi, di desatanizzarlo. Per esempio, il giorno che si vedr�, nei paesi arabi, qualcosa di simile allo sforzo compiuto dagli storici israeliani per demitizzare la storia del loro paese, ci si avviciner� alla comprensione reciproca, e quindi alla conciliazione.
A livello politico, sarebbe utile cominciare ad esaminare come un sistema di non antagonismo, istituzionalizzato e riconosciuto in campo internazionale, potrebbe contribuire ad una coesistenza pacifica d'Israele con i palestinesi e i paesi arabi, e quali sarebbero i suoi vantaggi in questo senso.
So che tutto ci� che riguarda la neutralit� non � popolare nell'attuale societ� internazionale e soprattutto tra i professori di scienze politiche. Ci si pu� peraltro chiedere se la neutralit� � compatibile con lo statuto delle Nazioni Unite, in un'epoca in cui gli interventi umanitari sono sempre pi� di moda, nonostante i disastri che hanno creato. Ma sappiamo anche che lo spirito di neutralit� non significa indifferenza, ma cultura e strumenti politici improntati di rispetto reciproco.
Per Israele, il primo vantaggio di una situazione di non interferenza istituzionalizzata sarebbe quello di poter tradurre in termini politici moderni e globali una concezione politica ebrea, indigena, radicata nella coscienza religiosa e nella cultura biblica, contrariamente ad altri sistemi importati, come il nazionalismo o il socialismo. Una politica estera animata da una volont� di non interferenza ufficialmente proclamata rappresenterebbe per Israele un potente strumento di promozione di un clima di conciliazione interna ed esterna.
Nei dibattiti sui "diritti storici", che dividono la societ� israeliana, gli ebrei favorevoli al compromesso territoriale, per meglio opporsi agli espansionismi "biblici", disporrebbero d'argomenti pi� convincenti, se ricordassero loro i doveri di non interferenza prescritti dalla Torah, invece di cercare di far accettare dei compromessi politici dettati dalla logica della moderazione o da dei principi laici stranieri, per i quali gli ortodossi nutrono poca simpatia.
Quanto agli ebrei convinti che la Torah legittimi il possesso incondizionato della Terra Santa, bisognerebbe ricordar loro che le Scritture promettono pure che "saranno vomitati" da questa stessa terra, se "si allontanano dal bene e fanno del male". Dovrebbero, di conseguenza, essere i primi ad opporsi ad un sistema d'occupazione militare trasformato in sistema quasi coloniale, che favorisce la corruzione e viola i principi di giustizia e della morale ebrea.
I Palestinesi, almeno quanto Israele, dovrebbero essere interessati da uno statuto di neutralit�, o comunque da uno studio serio dell'argomento.
Innanzi tutto, perch� uno stato palestinese rester� inclavato nelle frontiere e nell'economia d'Israele; come Israele, sar� dunque uno stato molto particolare, senza parlare del peso della propria diaspora e della propria ideologia "sionista" del ritorno.
Quanto ai governi arabi della regione, uno statuto di non interferenza, adottato ufficialmente da Israele e riconosciuto in campo internazionale, limiterebbe le loro preoccupazioni per le attivit� sovversive - vere o immaginarie - svolte da Israele all'interno delle loro frontiere (cristiani in Libano, copti in Egitto, ribelli sudanesi, kurdi irakeni, monarchici yemeniti, ecc.)
Infine, anche l'Europa avrebbe interesse a portare il suo contributo presentando le proprie esperienze di neutralit�, come la Svizzera, esempio di un paese in cui convivono culture e religioni differenti, e che ha saputo sviluppare una cultura politica e sociale d'autocontrollo e di rispetto reciproco istituzionalizzato.
Situazioni straordinarie esigono soluzioni straordinarie. Esigono anche visioni audaci ed originali. Quella di Herzl, che voleva restituire agli ebrei l'indipendenza politica, lo � stata, e ha dimostrato la potenza del sogno e l'energia di cui dispone il popolo ebreo, nonostante le decimazioni di cui � stato vittima.
Il Cardinal Martini pensa che la missione d'Israele � di "shalomizzare il mondo". Sarebbe forse osare troppo, domandare alla Comunit� di Sant'Egidio di riflettere sul come l'idea biblica della non interferenza potrebbe contribuire alla conciliazione nella giustizia in Medio Oriente ?