Alcuni di voi conoscono la storia di Falak. È una bambina siriana e musulmana che viveva ad Homs. La sua casa in Siria è stata distrutta dall'avanzata dell'Isis e la bambina insieme alla sua famiglia è stata costretta a cercare rifugio in Libano. Sin qui è la storia di migliaia di profughi ma per Falak c'era un problema di più: un tumore che le aveva già rubato un occhio e che stava minacciando anche l'altro e che, se non curato, le avrebbe tolto la vita in pochissimo tempo.
Oggi Falak vive a Roma in una casa della Comunità di Sant'Egidio, sta meglio, inizia a parlare italiano e a frequentare la scuola. La battaglia per la vita continua, così come per i genitori e il fratellino che l'accompagnano ma intanto Falak è curata, accudita, seguita. Ho voluto ricordare questa storia perché Falak e la sua famiglia sono stati i primi profughi giunti legalmente e in sicurezza in Italia grazie ai corridoi umanitari che voi della Comunità di sant'Egidio, noi delle chiese valdesi e metodiste e la Federazione delle chiese in Italia, siamo riusciti ad attivare nel quadro di un accordo con il Governo italiano.
Li chiamiamo profughi, immigrati, richiedenti asilo ma nel linguaggio biblico sono semplicemente il nostro prossimo (Luca 10,36) dietro il cui volto si cela Dio stesso. Sono i viandanti che arrivano sotto la nostra quercia di Mamre (Genesi 18); sono i profughi che attraversano il deserto per sfuggire alla violenza di moderni faraoni; sono bambini che si sottraggono alla strage degli innocenti voluta da un Erode spietato (Matteo 2,16): sono uomini e donne assetati di giustizia che osserviamo dalla nostra collina sul lago di Tiberiade (Matteo 5,6); sono le nostre sorelle e i nostri fratelli spogliati di tutto, e ciò che facciamo a questi "minimi" è come se lo facessimo a colui che confessiamo, nostro Signore e salvatore (Matteo 25,45).
Sto cercando di dire che ciò che stiamo facendo per i migranti non è un aspetto della nostra etica ma è un derivato essenziale della nostra confessione di fede. I cristiani sono impegnati in prima fila nelle politiche di accoglienza perché non possono altrimenti. Che altro dovrebbero fare? Barricare porte e cancelli? Alzare muri di divisione, magari armati di filo spinato? Chiudere occhi e orecchie ogni volta che un telegiornale annuncia una strage di immigrati che muoiono nel Mediterraneo? Atri lo fanno, e talora sono nostri fratelli e nostre sorelle, ma noi riteniamo che essi sbagliano e tradiscono la missione a cui sono chiamati. Lo dico con dolore, sentendo la lacerazione che questo produce nelle nostre comunità ma anche convinto che non possiamo sottrarci a questa verità espressa in tante pagine dell'Evangelo di cui vogliamo essere testimoni.
Noi siamo qui a condividere l'esperienza dei corridoi umanitari e dell'accoglienza dei profughi e dei migranti perché sentiamo che questo è il nostro posto. E giudico una benedizione che siamo qui insieme, cattolici e protestanti. È questo uno dei frutti più maturi della stagione ecumenica che stiamo vivendo e che dobbiamo utilizzare come semi per nuove iniziative e nuove avventure della nostra fede. Il rischio che vedo è che i risultati conseguiti ci gratifichino e ci rassicurino di avere fatto il nostro dovere. Ma non è così. La cronaca di ogni giorno ci dice che non è così e che – proprio per i risultati raggiunti – abbiamo di fronte altre e forse ancora maggiori responsabilità.
L'Europa si sente una fortezza assediata ed è sempre più impaurita, i migranti diventano il capro espiatorio di problemi e crisi che hanno radici profonde e complesse, il senso più comune è che i migranti siano un peso che trascina a fondo le nostre società.
Noi pensiamo e pratichiamo idee diverse. Ma riusciamo a comunicarle? Utilizziamo al meglio la forza della nostra predicazione e delle nostre istituzioni per offrire una diversa ed opposta interpretazione? Siamo pronti ad esporci nel dibattito pubblico italiano ed europeo per affermare con forza che l'unica strada sostenibile è quella di nuove regole e nuove visioni per il futuro euro-africano?
È questa, oggi, la nostra confessione di peccato: la timidezza e il ritegno nell'esporci con più forza, forse perché temiamo critiche e isolamento o forse perché temiamo di porci obiettivi troppo ambiziosi.
Sbagliamo.
Il messaggio biblico non è quello del realismo politico, al contrario, le Scritture ebraiche e quelle cristiane sono costellate di visioni e profezie che non sembravano avere senso comune: la croce e la resurrezione di Cristo non hanno senso comune eppure è su quella croce e sulla resurrezione che noi fondiamo la nostra fede.
Attorno a noi avvertiamo un clima di paura e una sensazione di decadenza, quasi che il mondo in cui viviamo sia destinato al declino e al collasso. Anche se non lo ammettiamo, ci sentiamo disperati perché vediamo sgretolarsi stili di vita e modelli di consumo non più sostenibili. Questo è il dramma della nostra generazione. E il dibattito sugli immigrati si sviluppa in questo clima e ne è drammaticamente condizionato.
La vocazione di noi cristiani è accendere una luce di speranza e di fiducia perché sappiamo che il Signore ama l'umanità e il mondo che ha creato. La paura e la disperazione xenofoba non devono privarci della nostra umanità e non possono dettare l'agenda della politica. Ma allora sta a noi proporre gesti e parole di fiducia e speranza. Sapendo che aprendo cuori e porte a chi bussa (Apocalisse 3,20) ci avviciniamo al centro della nostra fede e annunciamo la verità di Cristo perché il mondo creda.
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