Cardinal, Archbishop of Vrhbosna-Sarajevo, Bosnia and Herzegovina
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All’inizio di aprile 1992 sono stato in Austria, durante il pranzo è arrivata la notizia che la guerra è iniziata. Subito sono ritornato a Sarajevo con tutte le difficoltà che ho affrontato lungo il viaggio. Mi era chiaro che come pastore dovevo stare tra i miei nelle difficoltà che la guerra ci portava. Per dire sinceramente non ero consapevole di cosa è la guerra, quello che sapevo sulla guerra si riferiva ai racconti che ascoltavo mentre ero bambino. Si trattava degli orrori che sono successi durante la Seconda guerra mondiale. Da un anno era iniziato il mio ministero di arcivescovo, e coltivavo sogni e speranze legati anche all’arrivo della democrazia e quindi alla possibilità di organizzare la vita della Chiesa locale in libertà.
Le prime difficoltà sono iniziate quando hanno cominciato a mancare le fondamentali condizioni per la vita: la sicurezza, perché in ogni momento cadevano le granate, e la città era presa di mira dalle armi più diverse. Le linee telefoniche erano ridotte, mentre sempre più raramente c’era energia elettrica, anche l’acqua cominciava a scarseggiare fino a mancare totalmente. Le riserve alimentari pian piano hanno cominciato a ridursi. Le esplosioni frequenti condizionavano fortemente lo stato psicologico delle persone, anche io non sono stato preservato da questo ed una notte sono caduto in una crisi profonda. Allora ci siamo radunati nel sotterraneo per fare una preghiera comune e in quel modo abbiamo curato le tensioni psichiche e la paura.
In quel periodo ha iniziato anche la lotta per trovare l’acqua. Cercavamo di fare un pozzo nel giardino dell’arcivescovado, ma il problema era che non avevamo la benzina per la macchina perforatrice. Finalmente l’abbiamo trovata al nono metro di profondità, consideriamo che un litro di benzina costava 30 DM. Era comunque un successo anche se si trattava di acqua industriale utilizzabile solo per l’igiene.
In quel periodo difficile, la Caritas ha organizzato l’entrata in città del cibo e in quel modo siamo riusciti a sopravvivere, non solo io e i miei collaboratori ma molti cittadini. Quando qualcuno è affamato oppure in pericolo, sulla fronte non porta scritto a che nazione o religione appartiene, ma soltanto si deve pensare alla salvezza della vita umana. Sono grato a tutti quelli che, con questo spirito, hanno salvato la vita a tante persone.
Sono stato tre mesi in un seminterrato, fino a quando le granate non hanno danneggiato il tetto e non ci potevamo più difendere dalle intemperie. Le piogge del mese di giugno 1992 sono per me indimenticabili. Allora sono uscito dal seminterrato e non ci sono più ritornato.
Hanno iniziato a giungermi le notizie dalle parrocchie, in quel periodo mi sentivo come Giobbe quando lo informavano sulle sofferenze dei suoi. Ero impotente. Comunque ho capito, in quel crepuscolo, che sempre si deve testimoniare la speranza.
Per questo, nonostante il grave pericolo di vita, ho cercato di visitare le parrocchie e incoraggiare i sacerdoti e i credenti a ritrovare la speranza e non perdersi d’animo.
Mi era chiaro, nonostante la produzione di odio connaturale alla guerra, sfruttata in primo luogo dai media, e poi dai commercianti di armi, quanto era necessario costruire dei ponti. Per questo cercavo di avere incontri regolari con i rappresentanti delle Chiese e di altre comunità religiose.
Reis-ul-ulema per l’ex Jugoslavia, efendija Selimovski, era tornato in Macedonia, ma abbiamo avuto contatti regolari fino a che è stato a Sarajevo. Avevo anche contatti con il vescovo ortodosso Vladimir fino a quando a causa della malattia ha dovuto lasciare Sarajevo. Quando è stato nominato metropolita Nikolaj abbiamo iniziato incontri nell’aeroporto. Anche con il presidente della comunità ebraica, signor Čerešnješ, ho avuto incontri regolari fino a quando è stato a Sarajevo. Ad un certo punto sono rimasto unico rappresentante religioso a Sarajevo.
In quel periodo tenevo i contatti con molte persone in città: visitavo il territorio anche con se questo rappresentava un grave pericolo. Ero testimone di tutti i campi di battaglia e delle conseguenze della guerra.
Dopo la guerra mi è stato chiaro che era necessario iniziare il processo di dialogo e di edificazione della pace, della riconciliazione e del ritorno alla fiducia.
Così nel 1997 siamo riuscito a stipulare un accordo e firmare un memorandum dei principi morali su quali potevamo lavorare assieme come rappresentanti delle quattro comunità tradizionali del Paese.
Da allora ogni anno ci alternavamo alla presidenza del Consiglio interreligioso (MRV), e cercavamo di fare alcune cose per il bene comune. Non nascondo che erano i primi passi alla ricerca della via del dialogo. Tutti eravamo consapevoli che non c’era altra via tranne quella del dialogo.
Abbiamo incontrato una strumentalizzazione dei motivi all’origine della guerra che faceva cadere la responsabilità ai contrasti tra le diverse religioni. Con questa interpretazione la responsabilità politica della guerra si voleva far cadere sulle religioni.
Siamo andati in tutto il mondo a testimoniare che questa non era una guerra di religione, ma spesso si manipolavano i sentimenti religiosi.
I politici, quando il nostro sostegno gli faceva comodo cercavano l’appoggio dei capi religiosi, mentre quando erano sicuri nei loro passi ci accusavano di mescolarci nella politica.
A me come Arcivescovo era chiaro che dovevo affrontare la questione della ricostruzione degli edifici ma ancora di più che dovevo occuparmi dei cuori umani, attraverso il processo della riconciliazione ...
Qui vorrei specificare due importanti eventi: la visita del cardinale Roger Etchegeray a metà di agosto del 1992 come delegato del Papa. Per me questo è stato un forte incoraggiamento. Poi l’8 settembre 1994 quando papa Giovanni Paolo II, non potendo venire a incontrarci direttamente, ci ha mandato il suo messaggio da Roma attraverso la radio Vaticana. Abbiamo ascoltato questo messaggio in cattedrale tutti commossi.
Poi dopo questo, quando i telefoni non funzionavano, il Santo padre è riuscito a rompere l’isolamento telefonico e a chiamarmi direttamente.
È chiaro che la visita di Santo padre a Sarajevo il 12 e 13 aprile 1997 è stato un evento indimenticabile. Questo ci obbliga moralmente ad alzare un monumento in suo ricordo, davanti alla cattedrale il più presto possibile.
Oggi Sarajevo anela più luce e speranza per il futuro. Questo incontro dovrebbe mandare un messaggio chiaro: Sarajevo città della pace e della convivenza nell’uguaglianza.
Perché non è così? Dovrebbero porsi questa domanda tutti i responsabili, delle comunità locali e delle comunità internazionali. Le persone semplici desiderano vivere insieme, e vedere rispettata la loro dignità e difesi i loro diritti.
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