Mathausen, Bergen-Belsen, Risiera di San Sabba, Ravensburg, Majdanek. Le lettere bianche campeggiano sul fondo nero dei cartelli retti dalle sagome nel riverbero delle luci arancioni, mentre il profilo romanico del campanile si staglia nel cielo violetto del tardo crepuscolo. Piazza di Santa Maria in Trastevere è gremita, e non per il flusso dei turisti che tutto il giorno macinano passi tra vicoli, bar e negozi. La folla attende che abbia inizio il pellegrinaggio della memoria, che ogni anno, dal 1994, la Comunità di Sant'Egidio e la Comunità Ebraica di Roma organizzano per ricordare come settant'anni fa, il 16 ottobre 1943, durante l'occupazione nazista di Roma, oltre mille ebrei romani furono deportati. Venti minuti, gli stessi che vennero concessi agli ebrei per prepararsi alla partenza. Tanto dura la marcia che mercoledì 16 raduna tutti: «Siamo un unico popolo, il nostro è un destino comune», dice in apertura monsignor Matteo Zuppi, vescovo ausiliare del settore Centro, e «siamo insieme perché nessuno accetti più di restare a guardare. Siamo qui per illuminare la notte, con le nostre fiaccole, e per non abbassare la guardia contro l'antisemitismo». Cala il silenzio nonostante la moltitudine di gente e si sente,sommesso, solo lo sciabordare dell'acqua della fontana, mentre il vescovo pronuncia un elenco di nomi e cifre: le età delle vittime. In piazza ci sono cattolici, ebrei, anziani, testimoni di quel «triste giorno», come lo definisce, senza riuscire a trattenere il pianto, Maria Zenobi, classe '24, ospite della Comunità di Sant'Egidio: «Abitavo in via del Portico d'Ottavia. Ricordo la gente che scappava, sentivo chiamare "mamma, papà".
Poi, quando li portarono via, vidi, e non lo dimenticherò mai, un paio di scarpette da bambina, allineate davanti a una porta». Scarpette, quelle che ricorda Maria, che non sarebbero mai più state indossate, dato che nessuno dei 207 bambini «rastrellati» è sopravvissuto. Reduci da quel 16 ottobre, solo una donna, Settimia Spizzichino, e quindici uomini, tra cui Enzo Camerino, ricevuto in mattinata da Papa Francesco, che confessa di ricordare tutto «come fosse ieri. Avevamo dato l'oro, pensavamo bastasse». E invece no, volevano le persone. Ai giovani Camerino lancia un invito a «costruire un mondo accogliente per tutti». Il cielo, adesso, è blu notte, con la luna quasi piena che osserva il silenzioso corteo della memoria procedere lungo il ponte inglese e costeggiare San Bartolomeo all'Isola, per approdare al Largo XVI ottobre 1943, nel cuore dell'antico quartiere ebraico, tra le case che furono le quinte di mattoni e cemento della storia. Tra i vicoli con le imposte socchiuse e le luci accese cammina anche Manica Venezia, moglie di Shlomo, sopravvissuto ad Auschwitz e morto l'anno scorso: «Il dialogo è la cosa più importante», non si stanca di ripetere. Un appello affinché «nessuno venga più considerato nemico» viene lanciato dal sindaco di Roma Capitale, Ignazio Marino, mentre Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, sottolinea che «questa memoria non passa».
Chi ricorda quello che è accaduto «compie un grande gesto perché accetta di rivivere quello che ha già affrontato», evidenzia la presidente della Camera Laura Boldrini, sintetizzando l'impegno «in due parole: "Mai più"». Promette un iter quanto più rapido possibile per la proposta di legge contro il negazionismo dei genocidi il presidente del Senato Piero Grasso: «Forse - chiede - non bastano settant'anni? C'è ancora bisogno di tempo?». Di «una ferita aperta nella nostra memoria e nella nostra città» parla il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, mentre il presidente della Comunità ebraica, Riccardo Pacifici, annuncia l'adozione di una famiglia di sopravvissuti alla strage di Lampedusa: «È evitando che altri finiscano abbandonati nei campi, che si fa la memoria». L'«apertura tra persone di origini diverse» è al centro dell'intervento di Renzo Gattegna, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane. Sull'angolo di via del Portico di Ottavia scorrono i volti color seppia di chi qui viveva prima di essere portato via su un vagone piombato, lungo il percorso disegnato a ritroso dalla marcia: se il nastro della storia non si può riavvolgere, la memoria è un filo che aiuta a non smarrirsi nei suoi labirinti.
Il monito di Francesco: «Non abbassare la guardia contro l'antisemitismo»
Non abbassare la guardia contro l'antisemitismo e contro il razzismo, qualunque sia la loro provenienza»: è il monito di Papa Francesco contenuto nel messaggio scritto in occasione del 70° anniversario della deportazione degli ebrei della Capitale, consegnato al rabbino Di Segni nell'udienza concessagli venerdì 11 ottobre. «Mentre ritorniamo con la memoria a quelle tragiche ore dell'ottobre 1943 - scrive - è nostro dovere tenere presente davanti ai nostri occhi il destino di quei deportati, percepire la loro paura, il loro dolore, la loro disperazione, per non dimenticarli, per mantenerli vivi, nel nostro ricordo e nella nostra preghiera, assieme alle loro famiglie, ai loro parenti e amici, che ne hanno pianto la perdita e sono rimasti sgomenti di fronte alla barbarie a cui può giungere l'essere umano». In riferimento alla commemorazione, Francesco auspica che «da iniziative come questa possano intrecciarsi e alimentarsi reti di amicizia e di fraternità tra ebrei e cattolici in questa nostra amata città di Roma».
Ricordato il beato Focherini: morì a 37 anni in un lager
È il primo beato giornalista, Odoardo Focherini, elevato all'onore degli altari nel giugno scorso. Internato dai nazisti nel lager di Hersbruck, in Germania, all'età di 37 anni per aver aiutato oltre 105 ebrei a sfuggire alle retate, morì nel campo di concentramento il 27 dicembre 1944, lasciando la moglie e 7 bambini. Lo hanno ricordato mercoledì 16 ottobre, alla Camera dei Deputati, alla presenza della vice presidente Marina Sereni, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, l'onorevole Edoardo Patriarca, il vescovo di Carpi Francesco Cabine, Enzo Jacopino, presidente dell'Ordine dei giornalisti, e lo storico e vice presidente degli Adulti di Azione Cattolica, a cui Focherini apparteneva, Paolo Trofini. Nato a Carpi nel 1907, prima assicuratore, poi giornalista, oltre che presidente dell'Azione cattolica di Carpi, Focherini è stato «la dimostrazione straordinaria di cosa può essere anche un giornalista», ha dichiarato Tarquinio durante la commemorazione. «Non è vero - ha osservato - che chi fa questo mestiere parla delle cose e non le vive. Focherini le ha testimoniate fino al martirio». Tanto da essere il primo italiano beatificato per aver salvato gli ebrei dalla persecuzione nazista. «Se tu avessi visto come io ho visto in questo carcere cosa fanno patire agli ebrei - scriveva in una delle 166 lettere inviate dalla prigionia alla moglie - rimpiangeresti di non averne salvati in numero maggiore».