In una città dove sui muri delle case ci sono ancora i buchi dei proiettili parlare di pace sembra un`impresa folle. Vent`anni fa al culmine del disfacimento dell’ex Jugoslavia, qui esplodeva la più feroce delle guerre balcaniche. Tre anni di assedio dalle colline intorno a Sarajevo granate sui mercati sulle scuole pulizia etnica odio calcificato sotto la pelle. Serbi contro bosniaci croati contro serbi, ortodossi contro musulmani, cattolici contro ortodossi. Vent’anni dopo un pope, un iman, un rabbino e un vescovo si riuniscono sotto le insegne di un meeting che ha un titolo complicatissimo «il futuro è vivere insieme».
La Comunità di Sant’Egidio ogni anno replica in qualche parte del mondo la giornata della pace che Papa Wojtyla convocò nel 1986 ad Assisi. Questa volta in Bosnia Erzegovina è venuto anche il capo del governo italiano, Mario Monti. Un pò perché a fare gli onori di casa c’è il suo ministro Andrea Riccardi, che di Sant’Egidio è il fondatore. Un pò perché parlare di pace a Sarajevo ha un sapore particolare: «É una città emozionante», dice Monti «ma è pure luogo e simbolo della sofferenza, della difficoltà e della necessità dell’incontro». Nell`agosto del 1992 le bombe serbe mandarono in flamine la biblioteca di Sarajevo, Due milioni di libri distrutti, inchiostro che nei secoli aveva inoculato tolleranza e rispetto in questo ricettacolo di etnie e religioni differenti dove nel Seicento i musulmani accolsero gli ebrei in fuga dalle persecuzioni della Spagna cattolica. Si salvarono pochi volumi dall’incendio, fra questi l’Haggadan, prezioso manoscritto di rituali ebraici per la Pasqua. Fu un musulmano a strapparlo dal fuoco e adesso l’iman lo riconsegna al rabbino capo della città. Si abbracciano e tutti applaudono. Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, è fra quelli che battono le mani più calorosamente: «La sopravvivenza dell’Haggadan di Sarajevo è la sopravvivenza di uno spirito multietnieo e multiculturale che qui fu possibile». Il convegno della Comunità di Sant`Egidio ha un sottotitolo che è un moto di speranza: «Religioni e culture in dialogo».
Quando tocca al ministro Riccardi darne conto parla della pace «che è santa a differenza della guerra che santa non può essere mai». E parla del dolore. Il dolore sempre uguale delle madri che hanno perso figli e mariti, il dolore scritto nel dna di questa città insanguinata dalle lotte fratricide condotte talvolta in nome di un’etnia, talvolta in nome di un Dio: «Ma le religioni», dice Riccardi «non vogliono più essere utilizzate per benedire i muri che dividono». Ci sono migliaia di persone nel grande salone in riva alla Miljacka, il piccolo fiume che attraversa Sarajevo. Una babele di lingue e di religioni che provano a stare insieme. All`imbrunire si sente la voce del muezzin che chiama alla preghiera dalla moschea grande, nella cattedrale del Cuore di Cristo il prete conclude la messa della domenica. Alla stessa ora Mario Monti va al microfono, parla di «questo luogo in cui il Diciannovesimo secolo è cominciato (cm l’attentato del 1914 che scatenò la prima guerra mondiale) ed è finito (con l’interminabile assedio del 1992 durato tre anni) Ma è anche la città che si era globalizzata ben prima della globalizzazione». Osservando questo labile confine fra integrazione e divisione a Monti viene automatico parlare di Europa. Perché l`Unione dice, «sta vivendo una crisi profonda, che non è solo finanziaria, e mina le basi di quel’umanesimo intorno al quale era nata e si era sviluppata la costruzione europea». Come in un flash passa in rassegna la storia recente di un Continente che aveva «messo in comune capacità, risorse e conoscenze per fondare una società nella quale fosse impossibile ripetere gli errori tragici del passato. Ora però sembra aver smarrito, spero solo temporaneamente, il senso dell’agire insieme». In qualche modo Sarajevo sembra assomigliare nelle sue parole all’Europa. E viceversa Dove quello che univa le diversità improvvisamente può diventare scintilla di lacerazione: «L`euro, la moneta unica è stato il pinnacolo piè alto di questo processo di integrazione. Adesso invece rischia di essere motivo di nuove divisioni» colpa di una visione particolaristica e rassegnata, dice: «E allora il problema non è solo quello di rimettere a posto i bilanci, ma risvegliare nelle persone anche un nuovo ottimismo e speranza nel futuro». In platea ad ascoltarlo c’è pure Bakir Izetbegovic. Suo padre Alija era presidente della Bosnia che prova a riunire le proprie diverse anime in una convivenza pacifica. Stamane lui, e Monti si incontreranno. Hanno molte cose di cui parlare.