E' tornato da poco dal viaggio ad Auschwitz insieme con Francesco Guccini, in occasione dei cinquant'anni della Canzone del bimbo nel vento. Più che un viaggio lo considera un pellegrinaggio, perché «questi luoghi ci aiutano a interrogarci sulla debolezza umana di fronte al male e a porci le domande alle quali risponde la nostra fede».
Incontriamo l'arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi negli eleganti appartamenti vescovili della Curia, a pochi mesi dal suo insediamento, il 12 dicembre 2015. Il suo posto di lavoro, perché don Matteo ha scelto di vivere presso la Casa del Clero, la casa di riposo dei sacerdoti in pensione.
Eccellenza, cosa le manca di più di quello che ha lasciato a Roma?
«Roma è il mondo dove sono cresciuto con la Comunità di Sant'Egidio, con le varie esperienze delle parrocchie: è una rete di rapporti che mi mancano. Ma soprattutto devo ritrovare qui quel senso di universalità che a Roma si vive quasi fisicamente».
Bologna però le ha riservato un'accoglienza straordinaria. L'entusiasmo si sta mantenendo nel tempo?
«Sì, direi che c'è ancora tanta gioia nell'incontro, verifico il calore della gente, il che manifesta una Chiesa viva e insieme una richiesta di vicinanza e prossimità. E credo che proprio questo sia il principale impegno, di cui ha parlato tante volte papa Francesco e che ha riaffermato a Firenze quando ha chiesto ai vescovi di fare i pastori».
Le prime difficoltà?
«Intanto, occorre ripensare il rapporto con la città e con il territorio. Abbiamo un numero grandissimo di parrocchie e sempre meno preti: dobbiamo essere in grado di non rispondere soltanto a una logica di emergenza, ma di ripensare cosa siamo e cosa vogliamo essere. Il problema è come ridisegnare una Chiesa in uscita».
Che idea si è fatta di Bologna?
«Ho trovato alcune emergenze, con istituzioni che complessivamente sono di un livello buono ma che fanno fatica perché il bisogno è tanto, a partire dalla casa. Al di là del problema delle occupazioni, in realtà c'è un sommerso che è quello che mi preoccupa di più, tante persone in sofferenza, gli sfratti per morosità. L'impegno maggiore della Caritas è proprio quello di aiutare le famiglie, per esempio a pagare le bollette. E poi c'è il dramma della disoccupazione. Senza dimenticare i profughi, per i quali certamente dobbiamo fare di più». Appena arrivato lei è stato protagonista della copertina di "Piazza Grande", lo storico giornale dei "senza tetto". I poveri sono sempre al centro dei suoi progetti?
«Senza dubbio. Questa è una Chiesa che è già tanto impegnata, però dobbiamo trovare il gusto di nuove risposte alle domande che ci vengono rivolte e soprattutto continuare in un rapporto di amicizia con i poveri. Quello che ci chiede papa Francesco non è mai solo operativo, ma è soprattutto un atteggiamento contemplativo nei loro confronti. I poveri non sono solo oggetto della nostra vicinanza ma sono parte della Chiesa».
La Chiesa di Bologna ha avuto un'eredità miliardaria come quella della Faac, la multinazionale dei cancelli: lei conferma che sarà investita per i più poveri?
«Tutto sarà dato ai poveri, e non solo per cercare risposte alle emergenze. Intendiamo investire per aiutare l'inserimento nel lavoro. Pensiamo a cooperative a carattere sociale, a borse di studio per i giovani che devono studiare e non possono permetterselo».
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Simonetta Pagnotti
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