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20 Septiembre 2015

Tirana, la "casa dei pazzi" voluta dal regime. La storia dei genovesi che chiusero il lager

La "casa dei pazzi" è un cubo rosso magenta che sembra spuntato in mezzo ai palazzi squadrati dell'ospedale di Tirana come un pomodoro in un campo di cemento. È un pugno in un occhio, in faccia al reparto psichiatrico lager che è ancora lì accanto, dove fino a due anni fa gli ospiti della casa erano sepolti vivi. Una sfida urlata contro ilgrigio della dittatura, contro l'ingiustizia, l'idea che da lì sotto non si esce più, tanto sei matto e non c'è nessuna cura. Ma la fuga per la vittoria non è stata una corsa: progettata e cesellata a piccoli passi, dai volontari genovesi della Comunità di Sant'Egidio. Un'evasione durata vent'anni. Era infatti il 1995 quando per la prima volta sono arrivati qui i volontari da Genova

 
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Era il '95, quando i volontari da Genova sono arrivati per la prima volta a fare visita ai malati del reparto cronici dell'Ospedale Madre Teresa della capitale albanese, per qualche settimana d'estate. La dittatura di Enver Hoxha era finita dieci anni prima, ma quelli erano ancora gli anni della povertà estrema, dell'emigrazione di massa verso l'Italia, i primi gommoni nell'Adriatico prima che gli sbarchi fossero un bollettino quotidiano. I volontari non si trovarono davanti dei pazienti: ma dei morti che camminano.
Ci sono ancora le foto, e i video, nella Casa famiglia rosso squillante aperta l'anno scorso da 
Sant'Egidio per portare fuori tutti i reclusi del reparto cronici, che ora è stato definitivamente chiuso. "La detenzione in manicomio era usata all'epoca anche come modo per eliminare gli oppositori - racconta Elisa Di Pietro della Comunità di Sant'Egidio, facendo strada tra le sale arredate dal Rotary di Genova piene di quadri alle pareti, alcuni dipinti dagli ospiti - camminavano scalzi, erano denutriti, vivevano sottoterra, con finestre a fessura. La terapia non esisteva: davano loro una pastiglia al giorno, la stessa per tutti".
Mardi è il figlio di uno scrittore albanese. Quando la dittatura di Hoxha guardava a Mosca, la sua famiglia era molto in vista. Ma poi venne il periodo filocinese, loro vennero accusati di essere il veleno del popolo. Lui finì in manicomio. Oggi è qui, a riprendersi una quotidianità fatta di disegni in giardino, partite a domino, pranzi tutti a tavola insieme.
"Dei trenta pazienti che avevamo conosciuto - spiega Elisa - alcuni sono morti. Nel 2004 abbiamo trovato una casa in affitto, in centro: e ne abbiamo portati cinque. Poi abbiamo iniziato a costruire questa: in tutto oggi ci sono 16 persone".
In Albania, i reparti lager ci sono ancora. A Elbasan, Scutari, Valona. Più di 600 pazienti, in tutto. "Li andiamo a trovare, facciamo laboratori di pittura - spiegano i volontari - il sogno è di costruire altre case, e tirarli fuori. Qui abbiamo potuto vedere che è possibile". Su una parete è appesa una frase di Giovanni Paolo II. Dice: "Tutto può cambiare".


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