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AREL

Április 3 2012

di Mariantonietta Coliberti e Gianmarco Trevisi

"Abbiamo bisogno di visione per costruire il nostro destino comune" Intervista ad Andrea Riccardi

Andrea Riccardi è, dei ministri "tecnici", sicuramente quello che più ha conosciuto culture e realtà sociali diverse, poiché all`impegno accademico - ha insegnato Storia contemporanea nelle Università di Bari, Sapienza di Roma e Terza Università di Roma - ha sempre affiancato, se non anteposto, quello legato alla sua Comunità di SantEgidio, di cui è fondatore e leader indiscusso. Al capo dell`Onu di trastevere" divenuto ministro della Cooperazione internazionale e dell`integrazione siamo andati a chiedere di parlarci com'è e cosa può riservarci il nostro tempo.

 
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Ministro, questo numero della nostra rivista è dedicato al tempo. Lei è uno storico impegnato da decenni nel sociale e, ora, anche un uomo delle istituzioni. Dunque il suo punto di osservazione è molto ampio. Secondo lei, in che tempo siamo?

È molto interessante parlare di tempo oggi, perché la sensazione è che siamo in un tempo in cui conta solo il presente. Ci troviamo, infatti, in un momento in cui sembra mancare il tempo futuro. Abbiamo paura del futuro, perché temiamo sia un tempo di crisi maggiore; abbiamo paura del Futuro perché noi italiani, come gli altri europei, siamo invecchiati. Soprattutto temiamo il futuro perché mancano le visioni: Karol Wojtyla, in un verso dei grigi anni polacchi, diceva: «L`uomo soffre soprattutto per mancanza di visione». Mi sembra sia proprio questa la sofferenza italiana ed europea, la mancanza di visione. Manca la visione perché si è bloccati nella paura. Cosa sarà il domani? Vorrei però aggiungere che c`è una crisi del tempo passato. Che è una crisi della memoria. Non sappiamo da dove veniamo. Ci troviamo alle spalle questo tempo della Seconda Repubblica, che mi appare un tempo circolare, non un tempo lineare. Soprattutto, in questa nostra cultura dove i riflessi umanistici si vanno affievolendo, manca il senso della storia e del passato. Spesso non ci si proietta verso il futuro perché non si ha memoria. Per questo mi sembra estremamente opportuno parlare del nostro tempo e riproporre il valore del tempo. Perché senza tempo manca una misura fondamentale dell`esistenza e una misura fondamentale della politica.

Guardando alla nostra storia recente, c`è un momento collettivo - che è stato molto significativo anche per la sua storia personale e professionale - sul quale di tanto in tanto si torna a discutere e a dividersi. Ci riferiamo al Sessantotto. Come lo ricorda? C`è qualcosa nelle sfide di allora che può parlare a noi oggi?

Il Sessantotto è stato il grande anno della rivoluzione - chiamiamola così - antropologica, perché politicamente il Sessantotto è stata una rivoluzione fallita. Fu quello l`anno in cui Sant`Egidio ha preso le mosse. Quello del Sessantotto era un tempo escatologico: c`era un`ansia di cambiamento, di futuro, un`ansia utopica, di chi è convinto di poter costruire il futuro. Era, in fondo, pure in chiave contestativa, una forma di onnipotenza europea. Noi tutti, italiani ed europei, potevamo costruire il futuro. Oggi il Sessantotto è lontano, un po` perduto ormai, perché molte delle sue speranze si sono rivelate illusioni. Nella nostra società, però, ci sono sacche di speranza, di voglia di futuro, questo sì. Tra coloro che credono più nel futuro ci sono proprio i cittadini immigrati: hanno voglia di vivere, di affermarsi, di mettere su una famiglia. Insomma di avere un futuro.

C`è chi ritiene che, per evitare gli esiti fallimentari di un futuro troppo legato alla dimensione escatologica, si debba guardare dentro il presente, alla carica di futuro che esso contiene, e cogliere le possibilità che sono nella dimensione dell`agire quotidiano. È quello che dovremmo fare?

Io credo che l`Occidente abbia perso l`idea di poter fare la storia, e quindi di poter determinare il futuro del mondo. C`è un ripiegamento dell`Occidente in un senso del tempo circolare. In fondo, le grandi religioni abramitiche - cristianesimo, islam e ebraismo - sono religioni della storia. Quando un uomo, o una società, o un continente diventa, autoreferenziale e si sente irrilevante, perde il gusto della storia.

Dovremmo ricentralizzare sull`Occidente?

Credo che dovremmo, con i nostri limiti, ritrovare il senso del tempo presenre come premessa del futuro. Soprattutto, c`è nelle nostre società una carenza di speranza. Siamo dominati dalla paura. Significativamente, la paura è una delle parole che più ricorre nella Bibbia. Proprio perché l`uomo è impastato di paura. Quando Dio chiede al primo uomo: «Dove sei?», lui risponde: «Ho udito i tuoi passi e mi sono nascosto, perché avevo paura». Così nella parabola dei talenti. Tutti investono il talento, ma uno lo nasconde sotto terra e non lo fa fruttificare. Perché? «Perché ho avuto paura». Dí cosa? Del futuro.
Che strano. Eppure siamo nel tempo più sicuro della storia, ma ci sentiamo tanto fragili. Bauman lo dice: questo è il tempo più sicuro, siamo pieni di meccanismi di sicurezza. Cos`era l`uomo medioevale? Cosa l`uomo antico? Quale insicurezza abitava dentro di loro? Ma anche l`uomo dell`Ottocento non era
alieno dall`insicurezza... E invece proprio noi siamo, dominati dalla paura.

L`Italia a che punto è?

E 'ltalia si trova proprio nella condizione che descrivevo. Se penso all`Italia della mia giovinezza, all`Italia del boom, rivedo un paese che andava verso il futuro. Quale? C`era una visione utopica comunista e c`era una speranza cattolica, ma c`era soprattutto l`idea che bisognava costruire la società di domani. Oggi mi sembra che il nostro problema sia quello di salvare il nostro benessere piuttosto che quello di costruire per il domani.
Veniamo da una storia complessa. Abbiamo vissuto un lungo periodo di spinta, quello della ricostruzione, come ricordavo. Poi sono arrivati gli anni Settanta, che sono anni di crisi, in particolare sono gli anni della crisi del sistema centrale della Democrazia Cristiana che era il perno della politica e del governo. Sono anni cruciali: nel `74 il referendum sul divorzio, nel `78 la morte di Moro, l`unico capace di costruire un futuro per quel partito e per quel sistema; nel `78 muore anche Paolo VI, un papa che ha aiutato moltissimo l`affermazione della democrazia in Italia dopo il fascismo.
Sono succeduti gli anni Ottanta, anni di stagnazione politica e anche di "eutanasia" della politica, come scrive qualcuno. Arriviamo alla cosiddetta Seconda Repubblica, che io definisco «una Repubblica mai nata», in cui è stata centrale la figura di Berlusconi, come figura leaderistica emergenziale, a fronte della quale c`è stata la controproposta del centrosinistra. Si è trattato, però, di una Repubblica che non è mai diventata sistema e che ha conosciuto l`inaridimento di quelle che erano le grandi agenzie di politica e di pensiero, cioè i partiti. Così oggi  ci troviamo sulla soglia di un nuovo tempo, un po` attoniti, vogliosi di lavorare, ma anche incerti. Non è un caso che gli ultimi dieci anni, sullo scenario internazionale, siano stati dominati dall`11 Settembre 2001. Il nuovo secolo si è aperto con un evento che sembrava essere l`epifania del clash tra le civiltà. Il tempo futuro sarebbe stato uno scontro tra civiltà o tra religioni. E quante scelte sono state compiute secondo questa ottica... Dopo dieci anni, con la Primavera araba, ci siamo resi conto che l`islamismo radicale non si combatteva con lo scontro. Anche quella è stata la scansione del nostro tempo.
Oggi mi chiedo: esiste più un tempo della nazione? Con la globalizzazione, che ha coinciso con la Seconda Repubblica mai nata? Con la globalizzazione i tempi nazionali si sono avviliti, ridotti, ed è ricominciato un tempo globale. Ma esiste questo tempo globale? Come si fa a disegnarlo? Come si fa a scrivere una storia del futuro globale? E allora occorrono visioni. Occorre la capacità di coniugare il tempo nazionale con il tempo globale; diversamente, si sprofonda in un caos ciclico.

Cosa può fare un paese come il nostro?

Dobbiamo avere la forza di riaffermare il valore della nostra cultura umanistica. Temo invece che anche che nel mondo universitario, nel processo di riforma, nel processo di modernizzazione, possa andare perduta una delle caratteristiche fondamentali dell`identità italiana: l`umanesimo. Che è anche la nostra ricchezza per le profonde radici religiose del nostro paese, per il patrimonio artistico che possediamo. Dobbiamo difendere, incrementare, la cultura umanistica, nel nuovo secolo e nel mondo globale, perché quella è la nostra tradizione e la nostra funzione.

Nella sua prima uscita pubblica da ministro, lei si è recato nel cimitero di Villa Literno, sulla tomba di Jerry Masslo, un immigrato africano assassinato nel 1989. L`impegno sul fronte dell`immigrazione è un suo "must" da sempre.

Ci sono elementi legati alla globalizzazione che ci mettono in crisi. Uno di questi è l`immigrazione. Quindici anni fa si diceva che l`Italia con l`immigrazione sarebbe diventato un paese musulmano. 0.14:i è un paese con più musulmani (più di un milione), ma è anche un paese ortodosso, con gli europei ortodossi arrivati dall`Est che superano il milione e mezzo. L`immigrazione è un portato della globalizzazione, con un va e vieni dai singoli e differenti paesi. All`inizio del mio lavoro da ministro mi sono recato sulla tomba di Jerry Masslo, giovane immigrato sudafricano, assassinato nell`89, l`anno della caduta del Muro di Berlino, per sottolineare che dobbiamo dire "no" a questa via cruenta e violenta dell`immigrazione e che dobbiamo viverle fuori dall`emergenza, in una nuova fase di integrazione. Questo, però, vuol dire anche riproporre la nostra identità italiana, la nostra cultura umanistica, a gente che non è più di origine italiana. E allora? Significa costruire una nuova identità. Ma quando si aggiungono 4 milioni di immigrati, è come se si aggiungesse un`intera regione al nostro paese. E allora io sto lavorando cercando gli agenti di questa integrazione, convinto che il tempo di domani debba essere un tempo di integrazione tra diversi. Ecco allora il ruolo dei leader religiosi e delle comunità religiose. O, nel caso dei cinesi, il dialogo con l`ambasciata.

«C`è un tempo per ogni cosa...», dice l`Ecclesiaste. Aveva messo in conto che sarebbe arrivato per lei il tempo della politica? Che differenza c`è fra il cercare di incidere sul presente e sulla storia da Sant`Egidio e farlo da Largo Chigi?

Certo, è strano per me, perché vengo dal lavoro della società civile, della vita della Chiesa, dello scenario internazionale. Ho fatto da mediatore della pace in Mozambico, nel `92, o ìn Guatemala, o in altri posti del mondo. Oggi? Oggi faccio parte di un governo di tecnici, anche se non so in che senso sono tecnico, qualche volta dico che sono "pirotecnico``, nel senso che sono un uomo che ha un`esperienza di umanità: di un`umanità italiana, europea, africana, di vari paesi. Sono un uomo che ha viaggiato, che ha conosciuto persone e situazioni diverse. Che cosa ho tratto da questa mia esperienza di quarant`anni? Che il mondo è diventato complesso, che bisogna vivere insieme, che la civiltà di domani sarà la civiltà del vivere insieme e che perché questo sia possibile occorrono istituzioni democratiche e legalità.
Questa mìa fiducia la porto nei problemi della cooperazione internazionale, ma anche dell`integrazione  ella nostra società, perché credo che l`impatto con gli stranieri non debba essere un clash. 2001, clash di civiltà, di religioni, ma anche clash nelle periferie, nei quartierighetto. Noi non dobbiamo portare nella nostra società la logica del clash, dobbiamo portare la logica del convivere. E il convivere richiede regole e richiede cultura.

Ce ne sono a sufficienza nel nostro paese oggi?

Evidentemente no. Vorrei fare un esempio. Si dice che il tempo di Mani Pulite fu quello in cui fu snidata la corruzione. Oggi, però, noi ritroviamo quella stessa corruzione. Perché? Innanzitutto, perché la corruzione accompagna la storia dell`uomo. Certo, essa va contrastata, ma credo che il vero modo per
lottare contro la corruzione sia la cultura. Con la crisi delle culture politiche e di un ethos condiviso, credo che la corruzione nel nostro paese sia destinata ad aumentare e non a diminuire. Questo mi sembra il punto. Quindi, in un paese che, come l`Italia, si trova alla finestra della globaliz7a7ione, il rischio è quello di chiudersi, di rattrappirsi, di difendersi. Questo però non è possibile, perché, anche da un punto di vista economico, la sfida globale è quella di buttarsi.  E allora dobbiamo dare alla nostra Italia una cultura umanistica del presente perché possa aprirsi al futuro. Perché la corruzione è il contrario  ell`investimento, la corruzione impedisce di costruire per il futuro. E la logica dell`oggi e subito, in modo illecito. Un paese corrotto è anche un paese chiuso e bloccato su se stesso.
Il governo Monti è un governo tecnico, ma come ogni governo è un governo politico. Che fa scelte politiche e che comunica politicamente con il paese per spiegare i suoi provvedimenti. E ritorno al tema della speranza e della visione del futuro.

Dopo l`esperienza Monti, può il paese tornare indietro? Stiamo entrando nellaTerza Repubblica?

Non credo che il paese possa tornare indietro. E una domanda che ci fanno ovunque, in Europa ma non solo. Può tornare il paese alla scena di prima?  Non mi sento di affermare che ci troviamo davanti a una Terza Repubblica, ma certo oggi occorre una terza fase di cultura politica del paese. Una cultura politica capace di coesione e non di antagonismo, di differenze ma non di odio, e soprattutto di parlare concreto e chiaro. Poi c`è bisogno di speranza, che si traduce in progettualità. In questi tre mesi di governo gli italiani hanno sopportato anche sacrifici, perché hanno sentito che c`era un progetto per il loro futuro. Il tempo è tornato protagonista.

Per questa nuova fase lei intravede un leader, o una formazione politica, o un rinnovato ruolo dei cattolici? Queste cose insieme?

In questo momento credo che i leader siano Giorgio Napolitano e Mario Monti. Il capo dello Stato, con il discorso che ha svolto sui 150 anni dall`Unità d`Italia, ha ridato il senso d`identità al paese. È un indiscusso leader politico-morale. Il presidente del consiglio è un leader in un altro senso, nel linguaggio del fare politica. Si dice che sono due leader atipici.  Perché? Credo siano due leader istituzionali e politici, allo stesso tempo, a due livelli diversi. Per ora. I cattolici? Credo siano una risorsa del paese, radicati come sono in tanti luoghi d`Italia, una vera rete della società. Anche perché nel tempo presente sono morte tante reti di partecipazione sociale. I partiti com`erano, ma in parte anche i sindacati. La Chiesa è una rete. Dalla Chiesa può nascere una nuova Dc? Non credo. Credo però che i cattolici debbano fare un salto e connettersi più fortemente con il dibattito di cultura politica. Perché, se da un lato bisogna proclamare alcuni principi, dall`altro bisogna anche immaginare la realtà, la società.

E non c`è bisogno di un contenitore per i cattolici?

Non credo ci sia bisogno di un contenitore. Nei mesi precedenti allo scorso Natale si era diffuso un certo nervosismo di una forza politica o dell`altra, tutti si sono dovuti un po` riposizionare, i cattolici erano stati attivi fino a Todi... ora stiamo vivendo una specie di incanto, non come cattolici, ma come clima di cultura politica. Si aspettano le elezioni regionali, credo che si debbano creare dei cantieri di cultura politica, che propongano e dibattano delle visioni del tempo futuro.

Come immagina che si dislocheranno i cattolici nel concreto dell`appuntamento elettorale?

Non lo so. Si svilupperanno delle dinamiche, forse ci saranno alcuni settori dell`agone politico che avranno più consensi cattolici. Io credo che i cattolici debbano soprattutto rinnovare la propria cultura politica.

Nel tempo presente in Italia c`è un notevole tasso di antipolitica e anche di antagonismo.

Sì. Nella nostra società ci sono questi due problemi: l`antipolitica, che è la negazione del tempo futuro; e l`antagonismo, che è l`esaltazione del "particolare" con rabbia. Tutto questo esiste, eppure dobbiamo sforzarci di costruire un destino comune. E questo destino comune oggi passa attraverso la politica e attraverso il coraggio di rinunciare a certi aspetti del mio particolare. Il grande problema è come costruire il tempo futuro, per l`Italia e per l`Europa. Perché noi non siamo così rilevanti, come paese. Allora, c`è un tempo futuro per l`Italia nel Mediterraneo. La Primavera araba è un`occasione
incredibile. Primavera è un`idea di tempo, è un`idea di stagione. Che nel grigio autunno del mondo arabo, che durava da anni, potesse sorgere una nuova stagione è un fatto incredibile. La storia si è rimessa in movimento. Giovanni Paolo II diceva che la storia è piena di sorprese.
Dobbiamo lavorare perché il tempo del mondo arabo sia un tempo di democrazia. Coniugare islam e democrazia è la vera sconfitta dell`i l Settembre 2001, la vera risposta a Bin Laden. un tempo dell`Italia, un tempo mediterraneo. Poi l`Italia ha un tempo africano, perché l`Africa non è solo terra di problemi; oggi per l`Italia è una terra di grandi opportunità. Ma quando noi parliamo di tempo mediterraneo, di tempo africano, di tempo europeo, cominciamo già a immaginare, ad avere delle visioni del futuro. E quando si ha una visione del futuro, il presente, anch  se di sacrifici, riacquista calore e colore. Ma anche il passato riprende senso, e allora guardiamo indietro alla storia recente della Repubblica mai nata e capiamo che non è tempo buttato.

Parliamo della Chiesa. Che tempo vive in Italia e nel mondo, a cinquant`anni dal Concilio?

Il Concilio resta la pietra miliare. Anche l`esperienza di Sant`Egidio si colloca nel suo solco. Perché il Vaticano II è stato la riproposizione della grande tradizione della Chiesa nel tempo presente. Diceva Paolo VI: ,Un Concilio per vivere nel nostro tempo la fede». Il Concilio è la proposta della tradizione cristiana (con la t minuscola, traditio, che è la trasmissione della fede cristiana), ma è la tradizione nel nostro tempo. Chiudendo  l Concilio, Paolo VI parla di un evento caratterizzato da un`immensa «simpatia» per il mondo. Questo non vuol dire in ginocchio davanti al mondo, ma vuol dire una grande
speranza nel mondo e una testimonianza di fede cristiana. Il Concilio ci ha dato le chiavi per  interpretare il nostro tempo, e i pontificati che ne sono seguiti ne sono stati gli eredi: quello di Giovanni Paolo II è stato un grandissimo pontificato all`insegna del non avere paura e dello sperare. C`era il senso di una storia, la fine del comunismo. Anche papa Ratzinger è stato un grande teorico del Concilio, un uomo della tradizione, e chi è uomo della tradizione è anche uomo di speranza. Non tradizionalismo, ma tradizione.

Dopo papa Ratzinger, la Chiesa dovrà fare un qualche salto, dovrà cambiare qualcosa?

Al Papa auguro lunga vita. Il tempo della Chiesa non è quello della politica. È un`altra storia, quelli della Chiesa sono tempi lunghi, non sono calcolati sulle elezioni. La Chiesa è il luogo dove la lettura dei segni dei tempi è decisiva per dare speranza all`uomo.

Se dovesse indicare tre personaggi che negli ultimi decenni hanno realmente inciso sul loro tempo, determinando anche quello futuro e per questo resteranno nella storia?

Per me uno dei grandi personaggi del Novecento è Giovanni Paolo II, un uomo la cui fede ha cambiato la storia e anche la politica. P. anche un papa che aveva un`idea dell`Italia. Un altro grandissimo personaggio è Alcide De Gasperi, che ha capito la natura di questo paese e ha lavorato perché la democrazia si affermasse attraverso un grande lavoro di alleanza e di mediazione. Nei suoi differenti governi, De Gasperi ha saputo unire un forte senso politico e un grande senso tecnico. Poi c`è Nelson Mandela, un uomo che vivendo sulla sua pelle la sofferenza del suo popolo ha saputo vincere l`apartheid e inserire il Sudafrica, paese arcobaleno per la varietà delle sue popolazioni, tra i grandi paesi del mondo.

Che segno vorrebbe lasciare del suo mandato ministeriale?

Un anno e mezzo, mi rendo conto, è un tempo breve... Però vorrei che la sfida strategica che questo governo ha lanciato, ovvero di unire l`integrazione e la
cooperazione internazionale sotto un`unica visione strategica, non fosse lasciata cadere dopo le elezioni.

Non è detto che sarà solo un anno e mezzo.

Per Monti forse sarà di più, per me no.

Quali sono le sue priorità?

Come ministro della famiglia e dei giovani sto cercando di fare qualcosa in un tempo di tagli e di risparmi per aiutare la famiglia, puntando su asili nido e assistenza domiciliare agli anziani. Vorrei lasciare un segno sull`integrazione, con l`idea di cominciare a fare dell`Italia un modello del vivere insieme. Vorrei dare un segnale che l`Italia crede ancora nella cooperazione internazionale, riprendendo anche a interessarsi dell`Africa, che è completamente scomparsa dalla nostra agenda e da quella europea. Infine, mi piacerebbe che il Parlamento deliberasse sulla cittadinanza di quei bambini, nati in Italia da lavoratori stranieri regolarmente residenti e che abbiano completato un ciclo di formazione scolastica.


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