Papa Francesco parla spesso delle periferie. Si può dire che il breve discorso, che lo fece conoscere ai cardinali —alla vigilia del conclave —, fosse tutto incentrato sulle periferie. Forse questo è stato uno dei motivi della sua elezione. È diventato una moda oggi, nella Chiesa, parlare di periferie? Ma non solo nella Chiesa: è, anzi, uno dei temi più seri del dibattito in Italia e in Europa.
Papa Bergoglio ha evidenziato un problema decisivo del mondo globale: un mondo prevalentemente urbano, quindi dalle tante — anzi dalle soverchianti — periferie. La stessa esperienza personale e pastorale dell’arcivescovo Bergoglio è strettamente legata a una megalopoli del Sud del mondo, Buenos Aires, città dalle grandi periferie urbane e umane.
In Europa, proprio per le questioni connesse al fondamentalismo islamico e allo stesso terrorismo, ci siamo accorti dolorosamente di come le periferie siano uno spazio d’incubazione di gravi problemi per l’intera società. Ma non è però solo questione di sicurezza o terrorismo, bensì di qualità della vita. Infatti, le grandi periferie rischiano di compromettere quel volto che la città europea ha mantenuto con un senso di comunanza di destino, incentrata sulla piazza e sull’incrocio tra ambienti sociali differenti.
Il caso più evidente sono le grandi città del Sud del mondo, che divengono invivibili. Queste sfuggono il centro, divenuto spesso un’area degradata, mentre creano quartieri separati per i benestanti, compound protetti e ben controllati, gated cities, dove ci si difende dal mondo dei poveri e dei marginali. Nelle periferie si addensano i nuovi arrivati e gli emigrati, spesso in ambienti inaccoglienti, dove crescono le giovani generazioni. Significativamente gran parte delle attuali città africane è fatta proprio da periferie, anzi da slum, con abitazioni improprie.
Parigi è circondata da un’enorme periferia, la cosiddetta banlieue, che rappresenta un mondo a parte. Proprio in questa realtà è avvenuta una vera rivolta, soprattutto dei giovani, tra il 2005 e il 2006, che ha mostrato quanto fosse limitato il loro livello d’integrazione specie per i tanti di origine non francese. La banlieue non è più quella dei quartieri operai del secondo dopoguerra dove, accanto all’esclusione, si manifestava la forza del movimento operaio che aveva un suo radicamento profondo.
Nella periferia sono scomparse le reti politiche e sindacali, mentre si è ristretta quella religiosa della Chiesa. La crisi del mondo operaio — come si può constatare a Torino — ha svuotato le periferie di un tessuto comunitario o di coesione ma anche di una forza propulsiva, nonostante le difficoltà esistenti.
Nell’odierna solitudine di tanti (si pensi al grande mondo degli anziani) e nel vuoto, s’insinuano reti d’altra natura: è stata la storia di mafia-capitale a Roma, quando s’è constatata la presenza di organizzazioni criminali che riempivano spazi sociali. Il dibattito sulle periferie sta crescendo a livello pubblico. E’ un fatto positivo. Si può pensare, in questo senso, alle affermazioni di Renzo Piano sulla necessità di iniziare una stagione di «rammendo» dei tessuti urbani delle periferie. Il governo italiano ha investito significative risorse sul «bando periferie» per una riqualificazione del tessuto urbano periferico.
In questa prospettiva s’inquadrano le parole e le indicazioni di Francesco, che impongono alla Chiesa di misurarsi nuovamente con i mondi marginali, ma anche di convogliare nuove energie — non solamente i preti, una realtà in diminuzione - sul mondo periferico. Siamo divenuti tutti consapevoli che il futuro dell’umanità del XXI secolo si gioca nelle periferie. Questo richiede una dislocazione di attenzione, di risorse, d’impegno sui mondi periferici. Ma vorrei dire soprattutto di passione. Utilizzo questa espressione con convinzione, perché ci vuole una nuova passione. In questo modo si contrasta la tendenza odierna a chiudersi in nicchie, in ambienti protetti, dove magari fare il proprio lavoro in modo eccellente. Cambiare le periferie significa ritessere il tessuto umano sfilacciato di ambienti dove non esistono più comunità né senso di un destino comune. Questo richiede intelligenza, passione e lavoro volontario. Ma — diciamocelo — cambiare le periferie vuol dire salvare la qualità umana delle nostre città.
Andrea Riccardi
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