Diceva ieri Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica romana: «Abbiamo pensato che era giunto il momento di richiamare l'attenzione perché uno dei temi e degli insegnamenti dei sopravvissuti non è tanto ricordare la Shoah per rammentare le sofferenze loro e nostre. L'idea di fondo è raccogliere un insegnamento per il presente e il futuro affinché non si ripeta mai più ciò che è avvenuto durante la Shoah. Oggi non possiamo rimanere indifferenti». La fiaccolata di ieri sera al Colosseo, organizzata in parallelo dalla Comunità ebraica romana e della Comunità di Sant'Egidio in segno di solidarietà con i cristiani vittime di persecuzioni e per la libertà delle studentesse rapite in Nigeria, ha avuto per Roma un gran numero di significati. Il più evidente è legato proprio alla comunità ebraica, e al senso indicato da Pacifici. Non c'è famiglia ebrea romana che non sia stata colpita negli affetti e nei legami più cari durante il rastrellamento del 16 ottobre 1943. Esattamente per questo motivo, gli israeliti di Roma hanno avvertito il bisogno di manifestare, accanto a una comunità cattolica come Sant'Egidio, contro le persecuzioni di oggi che colpiscono i cristiani. E tutto questo avviene nella città sede del papato. I rinvii sono chiari, evidenti. Pacifici giustamente ricorda, anche senza citarlo direttamente, il grande insegnamento di Tullia Zevi: la memoria serve soprattutto a impedire che possa accadere di nuovo ciò che è avvenuto con l'Olocausto.
La condizione di tanti cristiani nel mondo oggi è difficilissima e dolorosa. Il fatto che siano gli ebrei romani a offrire la loro piena solidarietà scendendo in strada accanto ai cattolici dimostra come in questa città (la stessa delle atrocità del 1943) sia definitivamente maturato un clima di condivisione della memoria al punto tale che l'indelebile traccia di dolore lasciata dal nazismo diventa uno strumento collettivo, a disposizione di tutti, per impedire che una qualsiasi altra persecuzione si ripeta. Una scena come quella di ieri, che mostra il miglior volto di Roma (la capacità di dialogo, la reciproca comprensione che non è tolleranza ma conoscenza, il camminare accanto nelle necessarie e giuste differenze) può indicare una strada maestra per il futuro. In una società multiculturale e multietnica come è ormai quella romana, radicalmente e irreversibilmente modificata nell'arco appena di un decennio, il vero pericolo è non solo la contrapposizione ma anche l'isolamento, la paura dell'altro, quel rinchiudersi in recinti autorassicuranti che perpetuano sicuramente un'identità ma impediscono la nascita di una società polifonica e però, nello stesso momento, compatta e unita intorno a valori essenziali. La comunità ebraica ha dimostrato ieri che tutto ciò è possibile. Un gesto generoso e lungimirante che Roma non deve, non può dimenticare.