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17 November 2008 09:30 | Hilton Cyprus - Ballroom B

Intervento di David Rosen



David Rosen


Rabbi, International Director of Interreligious Affairs, AJC

Poche figure hanno avuto un impatto cosi forte sulla storia moderna dell’umanità come papa Giovanni Paolo II di venerata memoria. Il suo profondo impegno è stato estremamente tradizionale, tuttavia il suo effetto è stato rivoluzionario.

Sotto l’impatto della sua leadership i muri sono crollati e le barriere del passato sono state superate dal suo spirito profetico.

Nell’ambito delle relazioni interreligiose, egli ha tracciato una via, un nuovo cammino di pace e di rispetto tra le comunità religiose, ma probabilmente nessun altro cambiamento in questo campo fu più sensazionale e paradigmatico di quello che avvenne tra la Chiesa cattolica e gli ebrei. In verità questo nuovo rapporto era stato inaugurato dal beato papa Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II, durante il quale Karol Woityla era il più giovane vescovo presente. Da papa, egli ha stimolato fortemente questo cambiamento ed ha fatto sì che quella che era una corrente di riconciliazione divenisse un fiume impressionante.

Per Woityla, il rapporto con gli ebrei non era una questione teorica o prettamente teologica, ma parte integrante della sua stessa vita, plasmata dalle amicizie della sua gioventù e segnata dal trauma della Shoah e dalle sue implicazioni.

 Queste esperienze furono certamente determinanti nel condurre papa Giovanni Paolo II a ciò che il cardinal Edward Cassidy ha descritto come la sua “speciale dedizione alla promozione delle relazioni tra cattolici ed ebrei…(che ha portato a)…un nuovo spirito di comprensione e rispetto reciproci, di buona volontà e riconciliazione, di cooperazione e di [individuazione di] obiettivi   comuni tra ebrei e cattolici”. Egli  [il Card. Cassidy] ha notato che Giovanni Paolo II non solo “aveva aperto le porte del Vaticano ai leader ebrei che venivano a Roma, ma fece anche loro visita nei suoi viaggi pastorali in tutto il mondo, e coglieva ogni possibile occasione per affrontare, nei suoi discorsi, questioni inerenti le due comunità di fedi.”

Peraltro, ciò che ha caratterizzato il pontificato di Giovanni Paolo II sono stati i suoi grandi gesti e le sue grandi iniziative, che hanno permesso la diffusione di un messaggio su larga scala. A parte le sue profonde intuizioni teologiche e le sue dichiarazioni sul rapporto tra cristianesimo e ebraismo, la sua condanna del male insito nell’antisemitismo e l’espressione del suo profondo desiderio di riconciliazione tra cristiani ed ebrei, due eventi  hanno trasmesso questi messaggi con una forza e una potenza senza precedenti – la sua visita alla sinagoga di Roma nel 1986 e il suo pellegrinaggio in Terra Santa nell’anno 2000.

Il suo discorso nella sinagoga di Roma è tra i testi più importanti in questa rivoluzione dei rapporti tra cattolici ed ebrei, ma è stata soprattutto l’immagine del papa che abbracciava il rabbino Toaff, e che mostrava in maniera evidente un autentico amore fraterno nei confronti della comunità ebraica, a rimanere nella memoria collettiva e a raggiungere milioni di persone che non avrebbero potuto essere raggiunti dalle sue parole. Difatti, valutando gli eventi principali del 1986, il papa ha scelto come più significativo la sua visita alla comunità ebraica nella sinagoga di Roma ed ha espresso la sua convinzione che ciò sarebbe stato ricordato “per secoli e millenni…e ringrazio la Divina Provvidenza che questo compito è stato assegnato a me” (National Catholic News Service, 31/12/1986). 

Non minore impatto ebbe la visita del Papa in Israele, che fece un enorme effetto soprattutto agli ebrei israeliani. Molti di loro, e soprattutto i più tradizionalisti e osservanti, non hanno mai incontrato un cristiano moderno. Quando viaggiano all’estero, essi incontrano i non ebrei come non ebrei - raramente come cristiani. Perciò la loro immagine prevalente del cristianesimo è quella che ricavano dal tragico passato.

La visita del Papa in Israele ha aperto i loro occhi su una realtà cambiata. Non solo la Chiesa non è più il nemico, ma il suo capo è addirittura un amico sincero! Vedere il papa a Yad Vashem, memoriale dell’Olocausto, in una commossa solidarietà con la sofferenza degli ebrei, apprendere come egli stesso abbia collaborato a salvare gli ebrei in quel tempo terribile, e successivamente come prete abbia riportato i bambini ebrei, nascosti nelle famiglie cristiane, alle loro famiglie; vedere il Papa al “muro del pianto” porre, con grande rispetto verso la tradizione ebraica, il testo della preghiera che egli aveva composto per una liturgia di pentimento tenuta poco prima a S. Pietro, in cui aveva chiesto il perdono divino per i peccati che i cristiani avevano commesso contro gli ebrei durante i secoli: tutto questo ha avuto un profondo impatto su una fascia molto larga della società israeliana.

Questi gesti e la loro immagine visiva hanno avuto un effetto straordinario sul modo in cui gli ebrei hanno cominciato a vedere la Chiesa, ma non hanno avuto un effetto meno importante sul modo in cui in particolare i cattolici, e più in generale i cristiani, hanno cominciato a vedere gli ebrei, l’ebraismo e lo Stato ebraico.

In entrambi questi eventi storici, come in tutto il suo pontificato, papa Giovanni Paolo II ha determinato lo sviluppo dei temi centrali della sua eredità riguardo alle relazioni tra cattolici ed ebrei – temi che, come ho detto, si possono rintracciare fin nella sua gioventù, sia riguardo il tragico passato e le sue implicazioni, sia riguardo la natura e il proposito delle relazioni ebraico-cristiane.

Già nella sua prima udienza con i rappresentanti ebraici, nel marzo ’79, il Papa aveva riaffermato il rifiuto -proprio della “Nostra Aetate”- dell’antisemitismo, definito come “contrario al vero spirito del cristianesimo”. Nel novembre del 1986, egli descrisse gli atti di discriminazione o persecuzione contro gli ebrei come “peccaminosi”, e nell’agosto del ’91 parlò in particolare dell’antisemitismo, e più in generale del razzismo, come di “un peccato contro Dio e contro l’umanità”.

Inoltre, per Giovanni Paolo II, la tragedia della sofferenza ebraica, e in particolare la Shoah, non era solo qualcosa di cui ammettere l’esistenza. Nel 1985 ha fatto un appello, basato su un documento distribuito poco prima dal Vaticano, le “Note sul modo corretto di presentare gli Ebrei e l’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica”, perché si scandagliassero in profondità lo sterminio di milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale e le ferite inflitte nella coscienza del popolo ebraico. A questo proposito dichiarò: “ è necessaria anche una riflessione teologica”.

L’insegnamento sulla Shoah è divenuta per lui una preoccupazione. Egli ha posto l’accento sulla specificità degli ebrei come vittime della Shoah e, in una lettera all’ arcivescovo John May, nell’agosto del 1987, ha dichiarato che un approccio autentico all’insegnamento della Shoah deve in primo luogo trattare la realtà specificamente ebraica dell’evento ed è da questa particolarità che deve derivare il messaggio universale della Shoah . Trattando questo tema dell’educazione quello stesso anno durante la sua visita negli Stati Uniti, il Papa ha chiamato i cristiani a sviluppare insieme con la comunità ebraica “comuni programmi educativi che … insegneranno alle future generazioni l’olocausto così che mai più un tale orrore sia possibile. Mai più!” Io ho avuto il privilegio di ascoltare personalmente da lui lo stesso messaggio in Assisi all’incontro di preghiera per la pace nei Balcani, che è stato tenuto dalla comunità di Sant’Egidio nel 1993.

Ma indubbiamente l’aspetto più notevole dell’attenzione del papa sull’antisemitismo è stato la sua volontà di affrontare il ruolo che i cristiani hanno avuto nei secoli nella tragedia dell’antisemitismo e nelle sue implicazioni. Io penso che sia giusto dire che questo è stato un processo graduale. Tuttavia nel 25° anniversario della Nostra Aetate egli ha fatto proprie le parole sconvolgenti del cardinale Edward Cassidy e ha dichiarato che “il fatto che l’antisemitismo abbia trovato posto nel pensiero e nell’insegnamento cristiano richiede un atto di teshuva, pentimento.”
Poco dopo, nel novembre 1990, Giovanni Paolo II ha ricevuto il nuovo ambasciatore tedesco presso la Santa Sede. Nel suo discorso il papa ha dichiarato che “ per i cristiani il fardello pesante dell’assassinio del popolo ebraico deve essere una chiamata continua al pentimento: dunque possiamo superare ogni forma di antisemitismo e stabilire un nuovo rapporto con il popolo nostro fratello della prima Alleanza”.

Il documento della Santa Sede sulla Shoah “Noi ricordiamo” pubblicato nel 1998, riconosce i pregiudizi che hanno portato i cristiani a fallire nel resistere al male contro gli ebrei e l’anno successivo la Commissione Teologica Internazionale sotto la presidenza dell’allora cardinale Ratzinger ha pubblicato un testo su “Memoria e riconciliazione: la chiesa e gli errori del passato”, nel quale si ripeteva che questo fallimento richiede “un atto di pentimento (teshuva)”. Inoltre nella sua esortazione apostolica alla chiesa in Europa per il nuovo millennio, Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato che “il riconoscimento deve avvenire ovunque i figli della chiesa abbiano avuto parte nella crescita e nel diffondersi dell’antisemitismo nella storia; il perdono di Dio deve essere ricercato per questo e deve essere fatto ogni sforzo per favorire incontri di riconciliazione e di amicizia con i figli di Israele.”

Tuttavia io penso che sarà la liturgia di pentimento tenuta da Giovanni Paolo II a S. Pietro nell’anno 2000 che i posteri ricorderanno a questo proposito. Le frasi in cui si chiede il perdono divino per i peccati che i cristiani hanno commesso contro gli ebrei durante i secoli furono, come è noto, trascritte sul foglio di carte che Giovanni Paolo II ha posto nelle crepe del muro del pianto nel suo pellegrinaggio a Gerusalemme alcune settimane dopo. Il testo dichiarava…

Dio dei nostri padri
Tu hai scelto Abramo e i suoi discendenti
Perché portassero il Tuo nome alle nazioni:
Siamo profondamente addolorati
Per il comportamento di coloro
Che nel corso della storia
Hanno causato sofferenza a questi tuoi figli
E chiedendo a te perdono
Desideriamo impegnarci
Per una fraternità autentica
Con il popolo dell’alleanza

Come mostra l’espressione “Il popolo dell’alleanza” il papa Giovanni Paolo II era pienamente consapevole che ciò che in passato aveva distorto i rapporti tra ebrei e cristiani non era solo un atteggiamento negativo verso gli ebrei ma verso l’ebraismo stesso. Già a Mainz nel novembre 1980, nel rivolgersi alla comunità ebraica, la definì “ il popolo di Dio dell’antica alleanza che non è mai stata abrogata dal Signore ( in linea con la sottolineatura che la Nostra Aetate dedica a Romani 2, 29) sottolineando quindi il “valore permanente” sia della Bibbia che della comunità ebraica. Inoltre, citando un passo della dichiarazione dei vescovi tedeschi sull’“eredità spirituale d’Israele per la chiesa”, aggiunse la parola “vivente”, per enfatizzare la costante vitalità, validità e integrità dell’ebraismo.

Due anni dopo, rivolgendosi ad alcuni delegati delle conferenze episcopali in tutto il mondo raccolte a Roma per discutere modi per promuovere i rapporti tra cattolici ed ebrei, il Papa affermava che la riconciliazione col popolo ebraico e una comprensione più profonda degli aspetti della vita della chiesa richiedono che i cristiani studino e mostrino “la dovuta consapevolezza della fede e della vita religiosa del popolo ebraico come vengono professate e praticate ancora oggi;”… “in questo campo dovremmo avere come scopo che il magistero cattolico ai suoi diversi livelli nella catechesi ai bambini e ai giovani presenti gli ebrei e l’ebraismo non solo in maniera onesta e oggettiva, libera da pregiudizi e senza offese, ma anche con la piena consapevolezza di questa eredità….”.

Riaffermò questo sentimento nella citata visita alla sinagoga di Roma nel 1986 quando dichiarò “La religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma in un certo qual modo, è ‘intrinseca’ alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori”. Unì successivamente questa frase alla sua affermazione sulla validità eterna dell’alleanza divina con il popolo ebraico che definì “i nostri fratelli maggiori dell’antica alleanza mai infranta dal Signore e che mai deve essere infranta”; e con queste parole ha ricevuto il sottoscritto e la mia collega Lisa Palmieri Billig in Assisi accompagnati da Monsignor Ambrogio Spreafico e in presenza del braccio destro del papa Monsignor Dziwidz.

Il cammino della riconciliazione tuttavia provoca delle aspettative. Il papa, rivolgendosi ai rappresentanti dell’American Jewish Committee nel 1990, affermò che “la nostra comune eredità spirituale… include la venerazione delle Sante Scritture, la confessione dell’unico Dio Vivente, l’amore per il prossimo e la testimonianza profetica alla giustizia e alla pace. Allo stesso modo viviamo con attesa fiduciosa della venuta del Regno di Dio e preghiamo che sia fatta la sua volontà come in cielo così in terra. Per questo possiamo davvero lavorare insieme per promuovere la dignità di ogni essere umano e salvaguardare il rispetto dei diritti umani, soprattutto la libertà religiosa. Dobbiamo anche restare uniti per combattere ogni forma di discriminazione e odio che sia razziale, etnico o religioso, incluso l’antisemitismo”.

In conclusione, permettetemi di tornare ad un'altra affermazione del Papa rivolta all’American Jewish Committee nel 1985, che in sé può essere vista come una descrizione accurata del suo incredibile contributo alla riconciliazione e comprensione tra cattolici ed ebrei.

“Sono convinto, e sono contento di affermarlo in questa occasione, che i rapporti tra ebrei e cristiani sono significativamente migliorati in questi anni. Laddove c’era ignoranza e quindi pregiudizio e stereotipi ora cresce la conoscenza reciproca e il reciproco apprezzamento e rispetto. C’è soprattutto amore tra di noi. Il tipo di amore che rappresenta un impegno fondamentale vincolante per entrambe le nostre tradizione religiose… L’amore richiede comprensione. Necessita anche di franchezza e della libertà di esprimere il proprio disaccordo in maniera fraterna laddove ce ne sia ragione”.

Indubbiamente davanti a noi ci sono ancora delle sfide per il rapporto tra cristiani ed ebrei e sarebbe irrealistico aspettarci che non ce ne fossero. Tuttavia questo rapporto riflette una delle più straordinarie trasformazioni della storia, dal rifiuto all’amore, dall’alterità alla riconciliazione, dalla violenza all’abbraccio; e in questo processo Giovanni Paolo II fu davvero un grande profeta di pace.

 



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