Economista, Confrontations Europe, Francia
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LE DISEGUAGLIANZE E LA GRANDE TRASFORMAZIONE DEL CAPITALISMO
Civiltà: la parola indica ciò che le società condividono nel lunghissimo periodo: credenze, beni, relazioni socio-politiche. Sottolineo condividono, perché non è scontato. Le diseguaglianze sono al cuore dei problemi di una civiltà. Oggi più che mai perché la civiltà delle società occidentali è in crisi, come pure quella di altre grandi società. Abbiamo bisogno di lavorare per far emergere una civiltà mondiale perché l'umanità sta attraversando dei gravi pericoli.
Fonti di ispirazione
I Greci, per cui la politica è al cuore dello spazio comune e la cui finalità è di prendersi cura dell'anima, già sottolineavano il problema delle diseguaglianze:
Aristotele : impossibile, infatti, o almeno difficile compiere cose belle quando si è senza risorse, perché molte si compiono grazie ad amici, ricchezza o potere politico, quasi fossero degli strumenti.
Ben più prossimi a noi, i Lumi e la rivoluzione Francese hanno promosso lo Stato di diritto come un imperativo della democrazia moderna. Ciascuno deve essere cittadino senza esclusioni né privilegi e, accanto alla libertà, il principio di uguaglianza è al cuore dei diritti fondamentali. Quindi, osserva lo storico neo-marxista Paul Boccara, il cui libro Pour une nouvelle civilisation è fonte di ispirazione, il liberalismo e la sua creatività sono caratterizzati da rapporti contrattuali tra individui liberi ed uguali nei diritti, ma diseguali quanto a disponibilità di mezzi materiali e culturali. La risposta attraverso la legge al problema delle diseguaglianze, per quanto importante, non basta. San Paolo lo dice con forza nella Lettera ai Romani. Oggi il giuridismo integrale dei rapporti umani segna anche una crisi del diritto. Il valore eguaglianza, così il valore libertà, sono effettivi solo se si riesce a dare corpo e spirito al valore fraternità.
Mi rifaccio sempre all'Epistola ai Galati: non c'è più uomo né donna, né giudeo né greco, né padrone né schiavo, siamo tutti fratelli. Non è solo un messaggio d'amore, ma anche un messaggio di lotta: il rifiuto di ogni subalternità. Donna-uomo, cittadino-straniero, schiavo-padrone. Questo programma di Paolo è più che mai all'ordine del giorno. E riprendo anche il messaggio greco: l'accesso di tutti ai beni comuni della società è la risposta politica alla sfida delle diseguaglianze.
Con l'associazione Confrontations Europe che ho fondato e guidato per 25 anni con Claude Fisher e che prosegue il suo cammino, abbiamo cercato di avvicinare gli Europei nella loro diversità in modo che si riconoscano reciprocamente e che l'unità europea abbia un senso. Con l'associazione degli Entretiens Eurafricains che Claude dirige, cerchiamo di avvicinare europei ed africani perché condividano le loro sfide economiche e culturali in solidarietà. Con l'associazione United persons for Humanness -cofondata da Antoine Guggenheim e Diane d’Audiffret -cerchiamo di connettere le persone in modo che vivano insieme le sfide di un'umanità riconciliata. Alcuni intellettuali analizzano anche le sfide delle diseguaglianze nella tradizione umanista dei Lumi. Agnus Deaton nel suo libro La grande évasion vede nella diseguaglianza una privazione di libertà. L'uscita dalla povertà per coloro che la vivono è un'evasione, metafora della libertà. Negli ultimi 250 anni la storia del progresso è stata tuttavia una storia di diseguaglianze. Forgiare un'etica e una pratica dell'alterità è sempre una fonte di ispirazione indispensabile per combattere insieme le diseguaglianze. E, nel nuovo contesto del capitalismo globalizzato, le diseguaglianze ci obbligano a ripensare i nostri modelli e le nostre istituzioni del progresso.
Realtà socio-economiche
Cominciamo con l'analisi fondata su lavori statistici così preziosi perché consentono di chiarire i fatti e permettono un dibattito approfondito. Mi riferisco in particolare alle riflessioni di André Babeau, Denis Kessler e Philippe Trainar nella rivista Commentaire (estate 2016). Nonostante i suoi limiti e i suoi punti deboli, l'opera di Thomas Piketty Le capital au XXIème siècle presenta un profilo del tutto plausibile per il mondo occidentale. Misurate in termini di scarti di redditi e patrimoni, le diseguaglianze in quest'area si sono accresciute nel XIX secolo; hanno iniziato a ridursi nel XX secolo tra le due guerre mondiali e dopo la seconda guerra mondale, ma sono incontestabilmente aumentate dagli anni '80. A livello mondiale, invece, si osserva una riduzione, dovuta alla diminuzione della povertà e alla spinta della classe media nei paesi emergenti in forte crescita, in particolare la Cina. Ma quando si cambia di ottica e si guardano le cose dal basso, invece di considerare il mondo come un tutt'uno integrato, si osserva la crescita delle diseguaglianze in seno ad ogni società nazionale, e forse in modo più pronunciato nei paesi meno avanzati.
Trattando delle cause, l'analisi di Piketty presenta due punti deboli. Il primo è che , contrariamente a quello che egli afferma, il tasso di rendimento del capitale non è sempre maggiore del tasso di crescita: quindi nelle crisi le perdite di capitale sono importanti. Tuttavia il conto è in buona parte inviato ai cittadini e pagato da essi. Il secondo punto debole nell'analisi di Piketty è che mette l'accento soprattutto sulle trasmissioni di patrimoni. A livello mondiale, tra le prime 20 fortune di oggi, al massimo 3 appartengono ad ereditieri, le altre 17 corrispondono a proprietari di imprese operanti spesso nell'industria informatica, molte delle quali non esistevano 20 anni fa (fonte: Forbes). Facciamo attenzione a questo punto: la cattura dell'innovazione da parte degli imprenditori capitalisti per realizzare molto rapidamente delle enormi fortune è una novità e un pericolo fondamentale. Occorre sottolineare al tempo stesso l'importanza scandalosa delle fortune e delle rendite costruite nel settore immobiliare.
Nel dopo-guerra, il potente intervento dello Stato nei paesi occidentali ha permesso di ridurre le diseguaglianze: prelievi fiscali rilevanti hanno mobilitato risorse per la sicurezza sociale e l'impiego. Queste spese giocano ancora oggi un ruolo di ammortizzatori sociali in paesi come la Francia. Ma anche il settore pubblico produce diseguaglianze. Infatti, il sociologo Pierre Bourdieu ha stigmatizzato la nobiltà di Stato e i suoi eredi. Un' élite sociale si forma nel settore dell'istruzione pubblica ma al tempo stesso il numero degli abbandoni scolastici è massiccio e crescente. Lo Stato proclama l'uguaglianza delle opportunità ma produce esso stesso diseguaglianza. L'invecchiamento demografico accentua anche i problemi del finanziamento della sicurezza sociale e solleva grandi problemi di equità intergenerazionale, come attesta la situazione sempre più precaria dei giovani. Notiamo tra l'altro che le diseguaglianze di patrimonio sono molto più correlate alle diseguaglianze di capitale umano che alle diseguaglianze di reddito annuale. In generale, le politiche di redistribuzione tra ricchi e poveri non hanno impedito la crescita delle diseguaglianze: il problema è sistemico.
Aggiungo, e lo si sottolinea troppo poco, che le politiche assicurative proteggono le popolazioni abbienti mentre quelle fragili e la maggioranza della popolazione mondiale ne restano escluse. Ho sentito dichiarare dai dirigenti delle assicurazioni AXA e Allianz e dalla Banca Mondiale che il 95% della popolazione mondiale non è assicurata contro gli effetti e i rischi dei cambiamenti climatici. E qual è la protezione dei rifugiati chiusi nei campi per anni?
Crescita e diseguaglianze
I campioni del capitalismo hanno sempre ritenuto che la crescita sia la risposta fondamentale alla questione sociale. In effetti la crescita ha permesso di innalzare il livello di vita, una fonte di progresso incontestabile. Ma è solo un aspetto. Sfuggire alla povertà è un problema di denaro, ma contano anche altri fattori: una migliore salute, capacità di vita attiva. La diseguaglianza ha un volto positivo - scrive Deaton - quando permette a certe persone di aprire ad altre la via alla libertà. E' il caso della creazione di imprese e dell'innovazione che rispondono ai bisogni della società. Ma essa è negativa quanto favorisce rendite e privilegi, privando gli altri dell'accesso al progresso. Oggi il volto nero è palese. La macchina economica e finanziaria produce tali diseguaglianze e le sue innovazioni sono spesso così fittizie o inadatte che anche negli Stati Uniti si comincia a preoccuparsi per le conseguenze negative delle diseguaglianze sulla crescita. Le diseguaglianze spengono o inaridiscono il vivaio umano cui attinge il capitalismo. Sembra si sia dimenticato il messaggio di Adam Smith: la ricchezza delle nazioni è il lavoro. Il numero degli esclusi dal mercato del lavoro e/o dei precari, invece, non fa che aumentare e la produttività di coloro che lavorano ristagna o diminuisce. C'è un incendio nel sistema. Governanti illuminati s'interrogano ora sulla probabilità di stagnazione secolare.
Quanto alla decrescita proposta da certi ecologisti, non è una soluzione. Se in occidente occorre denunciare un eccesso di consumismo, l'impoverimento sarebbe drammatico. D'altra parte, la massa delle popolazioni povere del mondo ha bisogno di lavoro e crescita, e, come sottolinea Papa Francesco, questo deve assolutamente essere preso in considerazione nella lotta contro i cambiamenti climatici e i loro effetti. Si è sperato molto nei paesi poveri quando la crescita era facilitata dal commercio mondiale. Ma essa era legata all'aumento dei prezzi delle materie prime. Questa si è interrotta. Come farà l'Africa minacciata da forti impatti ecologici già dal prossimo decennio, provata dalla spinta dell'islamismo radicale, mentre la demografia aumenta rapidamente e le diseguaglianze sono enormi? Ha imperativamente bisogno di una forte crescita. Globalmente le modalità della crescita, lo sviluppo devono cambiare, devono diventare più endogene, più inclusive, più durature. E' una sfida immensa.
Alcuni si attendono effetti magnifici su produttività e crescita dalla rivoluzione informatica e tecnologica in corso. Così immaginano che il problema sia risolto. Ma le statistiche non indicano questa tendenza e le diseguaglianze sono uno dei motivi principali. La mia opinione è la seguente: la cattura di strumenti e infrastrutture rivoluzionarie da parte di una piccola minoranza della popolazione ha permesso di costituire quasi dei monopoli mondiali e, pertanto, priva la grande maggioranza delle capacità cognitive e materiali necessarie ad applicarle per realizzare un autentico benessere individuale e collettivo. L'utilizzo di questi strumenti da parte di società multinazionali che li giudicano innovativi, a prescindere dalle loro qualità reali, si è orientato verso finalità di consumismo di massa aggravato. Gli investimenti hanno richiesto condizioni di rendimento astronomiche e si appoggiano alla dittatura dei mercati finanziari in materia di valorizzazione dei progetti, delle imprese, e dei modi di finanziamento; anche le politiche pubbliche monetarie vi sono troppo assoggettate. Questo si è accompagnato al deperimento dei beni pubblici nei territori rurali e alla loro carenza in una urbanizzazione forsennata, e all'impoverimento anche dei ceti medi stessi. L'inaridimento del vivaio del lavoro umano produttivo è inseparabile dall'esclusione sociale. Non è possibile continuare a crescere così.
Una grande trasformazione del sistema capitalistico è necessaria ed è tanto più complessa perché globalizzata. Il mercato è mondiale, ma questa globalizzazione non è né civilizzata né sostenibile così com'è.
Beni pubblici e crescita inclusiva
Tra le due guerre, uno dei maggiori economisti ed antropologi del secolo, il marxista Karl Polanyi, ha mostrato quale grande trasformazione sia stata a suo tempo la creazione dei beni pubblici. Nel linguaggio degli economisti un bene pubblico puro è un bene accessibile a tutti senza rivalità né esclusione. Egli scriveva che il denaro, la terra e il lavoro sono stati allora sottratti alla mercificazione pura e semplice. Non si tratta di demonizzare il mercato - uno spazio fondamentale degli scambi umani - e di dire che l'uomo vive di solo spirito. Ma tutto dipende dal modello di mercato. L'intervento pubblico è stato necessario per creare forme non commerciali di scambio fondate su una socializzazione delle risorse: esse sono allora connesse ad un mercato ripensato. Lo Stato ha anche svolto un ruolo principale di investitore di lungo periodo in tutto un settore di infrastrutture necessarie alla vita sociale (energia, trasporti, istruzione, ricerca, salute), rese il più possibile accessibili a tutti.
Tuttavia, nell'attuale capitalismo globalizzato, lo Stato investe molto poco e l'investimento è principalmente di competenza del settore privato. Inoltre, gli Stati che si pensa garantiscano la solidarietà nel loro territorio, la riservano ai propri cittadini, e, a fianco dei loro campioni privati, sono dichiaratamente rivali in una concorrenza globale esasperata.
Chiaramente occorre oggi immaginare una trasformazione à la Polanyi non solo nello spazio nazionale ma anche negli spazi internazionali, regionali e mondiali. E fare in modo che il settore privato, che dispone di risorse umane e finanziarie enormi e dell'intelligenza richiesta dall'innovazione, possa anch'esso concorrere all'investimento per lo sviluppo di beni pubblici. Occorre immaginare una ridefinizione dei settori pubblico e privato, inventando nuove forme di partenariati pubblici-privati, per mutualizzare le risorse nell'interesse generale, non più solo nazionale ma elaborato in tutte le grandi aree del mondo tra i popoli interessati. E' un problema di redistribuzione delle risorse per il benessere e la crescita su una scala completamente nuova.
Nel mondo occidentale le politiche di trasferimenti dello Stato assistenziale per i cittadini stanno incontrando il proprio limite. L'assistenza risparmia ancora delle sofferenze, ma la priorità dovrebbe essere di inserire nella formazione e nel lavoro la massa delle persone escluse o fragili. Nei paesi in via di sviluppo le risorse interne non sono affatto all'altezza dei bisogni. E se l'aiuto pubblico che viene dai paesi occidentali non è insignificante, è però sostanzialmente inefficace. L'economista François Bourguignon pone una giusta domanda: è opportuno fermare l'aiuto, quando la parte di aiuto pubblico allo sviluppo che va a beneficio della popolazione locale non rappresenta che il 15% del trasferimento - cosa che succede molto spesso - perché l'85% è dirottato dalla corruzione di stato e sprecato in rendite inique? D'altra parte le esportazioni di armi verso questi paesi contribuiscono all'auto-distruzione degli stati in formazione, cancellando in buona parte gli effetti dell'aiuto pubblico dei paesi stranieri. Occorre affrontare questi problemi e cercare altre forme di aiuto. L'aiuto dei paesi occidenti ha la specificità che essi non si assumono le loro responsabilità sul posto. Occorre che le società civili, le imprese occidentali assumano impegno profondi e durevoli nei paesi in via di sviluppo all'interno di partenariati che dispongano di risorse mutualizzate. La riluttanza degli investitori internazionali a scommettere nel lungo periodo è clamorosa in Africa e alcuni politici parlano di piani Marshall ma sono invisibili.
Nella sua rete, Claude Fisher lavora per raccogliere la sfida avvicinando soggetti europei e africani attorno al problema degli investimenti a lungo termine. Questi sono necessari sia per industrializzare l'Africa, sia per dotarla di beni pubblici necessari ad una crescita inclusiva. Una delle priorità maggiori è la promozione del capitale umano con la formazione e l'accesso al lavoro. Gli investimenti stranieri devono entrare in partenariati per poter investire con rendimento debole e differito e nei settori dove i rischi di perdite sono elevati. La soluzione passa attraverso garanzie pubbliche massicce che permettano di mutualizzare costi e rischi. L'aiuto pubblico deve essere rinnovato per favorire questi partenariati. Inoltre occorre che gli stati interessati non pongano ostacoli e che, per eliminare eventuali rivalità, si costituiscano istituzioni regionali suscettibili di sollecitare o imporre una forte cooperazione sul continente africano. Alcune di queste istituzioni esistono già ma non hanno ancora la forza di impulso di un vero potere pubblico condiviso.
La ricerca di nuove solidarietà umane e produttive
Per dare un nuovo punto di partenza ad un'Europa divisa, ho avanzato il concetto di solidarietà umane e produttive. Questo è ancora più valido per le nostre relazioni con i paesi in via di sviluppo. E' per questo indispensabile il coinvolgimento di nuove società civili capaci di inventare e costruire tali solidarietà stabilendo dei partenariati durevoli per lo sviluppo congiunto. Al tempo stesso la regolamentazione dei mercati nazionali deve cambiare. Superando il "fair trade" o il "level playing field", essa deve far posto agli incentivi e alle mutualizzazioni che promuovono queste solidarietà. l'internazionalizzazione delle strutture di ricerca e istruzione è indispensabile affinché gli esclusi, i precari, i fragili possano inserirsi in modo durevole nell'economia mondiale avendo accesso ai beni pubblici essenziali.
Riprendiamo il trittico di Polanyi.
Innanzitutto il denaro. Non basta stigmatizzare il suo volto nero, l'avidità, il deterioramento dell'umano, occorre vedere il suo volto storico fondamentalmente positivo di moltiplicazione delle capacità umane di progetto e scambio. Occorre che le società si riapproprino del loro potere sul denaro per poter scegliere e finanziare i progetti di interesse comune di cui hanno bisogno. Molti esperimenti vanno in questo senso, a tentoni, e ho avuto il piace di parteciparvi a Bruxelles negli anni che hanno seguito la crisi del 2008; Bruxelles trattata esageratamente come capro espiatorio da troppe persone indignate che non vedono la complessità delle sfide.
La terra : inutile sottolineare che di fronte all'imperativo ecologico la coscienza e la mobilitazione aumentano ma siamo ancora lontani dall'obiettivo, e, ripeto, non si deve dimenticare la diversità di territori e la diversificazione industriale delle economie. La massa delle popolazioni mondiali ha bisogno di produrre molto di più e meglio e, senza nuove solidarietà, questo è impossibile.
Il lavoro, infine, non dimentichiamolo, mentre le folli dichiarazioni sulla fine del lavoro si levano ad ogni istante. Gli esclusi, i fragili, sono tali per mancanza di investimento in capacità umane (istruzione, formazione, salute). Ho denunciato le caratteristiche elitarie e discriminatorie delle attuali strutture economiche. Voglio la qualificazione per tutti e non una società scissa tra qualificati e non qualificati. Soprattutto quando il lavoro oggi è sempre più questione di creatività e di qualità. La posta in gioco è il superamento del salariato tradizionale subordinato al capitalismo. Domani i lavoratori saranno al tempo stesso imprenditori e creatori; guardate come in Africa le donne, le popolazioni prendono coscienza di ciò. Ma queste trasformazioni della formazione e del lavoro necessitano di mobilità di pensiero ed azione. Osservo che gli Europei pretendono di difendere la libertà di circolazione, mentre nelle circostanze attuali essa è fondamentalmente diseguale. Non riformare il mercato del lavoro significa inchiodare i deboli nella precarietà. Certo questo va gestito con la mobilità, ma per questo occorre valorizzarla non stigmatizzarla.
Partecipazione democratica
Chiaramente tutte queste considerazioni portano a vedere che la lotta contro le diseguaglianze rimette in causa il tipo di democrazia in cui viviamo. L'incantesimo dell'unità attorno ai valori della Repubblica e dei Lumi non fonda più la società. Il contratto sociale di Rousseau ha delle crepe. L'uguaglianza è formale. La carenza di valori di alterità e interiorità è palese. I ripiegamenti nazionali sono molteplici. Persino l'antico principio di sovranità ne risente. Cercate di capirmi, la sovranità è stata il volto politico dell'ideale di auto-determinazione dei popoli e designa ancora la volontà di identificare autonomamente le scelte collettive che ci uniscono. Ma è stata affidata allo stato nazionale. Questo resta un fattore di coesione fondamentale, ma l' iper-delega del potere dei popoli alle élites dirigenti deve essere rimessa in discussione, come anche l'eccesso di subordinazione nei rapporti sociali.
La democrazia occidentale riposa sul modello di governo rappresentativo nazionale. In Occidente i suoi limiti sono visibili. Al suo interno le diseguaglianze aumentano. All'esterno, dopo la colonizzazione, gli interventi degli stati in nome dei diritti dell'uomo e della democrazia sono spesso controproducenti. Occorre discutere questi problemi nello spazio pubblico e trovare altre soluzioni. I problemi interni ed esterni sono collegati. Solo la partecipazione dei popoli, la formazione di nuove società civili e il loro associazionismo transnazionale li risolveranno. Tali problemi costringono a ripensare la democrazia. Per concludere ritorno a Paolo: superiamo le segregazioni, i domini, inventiamo la rotazione dei ruoli, la condivisione delle informazioni e delle responsabilità per farci carico delle riforma delle imprese e degli stati. Al di là dello stato-nazione, diamo un nuovo soffio alle istituzioni regionali e mondali che sono state create dopo la II guerra mondiale. Devono crescere in forza per distribuire i beni comuni su tutt'altra scala, superando le chiusure imposte dalle potenze dominanti e dalle loro governance, chiuse in rapporti intergovernativi. Occorrono quindi anche riforme del pensiero e dell'etica perché la sfida culturale racchiude le altre. Il dialogo interculturale ed ecumenico è indispensabile. Deve osare affrontare ora le sfide della grande trasformazione economica e politica perché le virtù si provano solo con le azioni.
Vedo sotto questo angolo la nuova prospettiva della costruzione dell'Europa, un'opera di civilizzazione all'incontro altre civiltà, nella prospettiva di una umanità pacifica perché riconciliata.
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