E’ facile per qualsiasi mezzo di comunicazione impostare le notizie secondo i propri punti di vista e ignorare i fatti? Questa è la domanda importante che è ancora al centro di molti dibattiti.
Propaganda per la guerra? È sempre preciso dire questo? Quando i media raccontano una guerra tra due paesi, o una guerra civile, possiamo incolparli di fare propaganda per la guerra? Esiste un criterio preciso per distinguere il “racconto” dalla “pubblicità”?
La guerra contro il terrorismo (a partire dall’11 settembre) ha amplificato questo problema: per esempio, Aljazeera ha commesso un errore quando ha mandato in onda le registrazioni di Bin Laden, pur dopo aver fatto un editing di ogni discorso?
E’ facile gestire in maniera giusta due versioni di un qualsiasi avvenimento quando una è ufficiale (del governo Americano o britannico, per esempio) è l’altra rappresenta il punto di vista di Al Qaeda o dell’ISIS (ISIL o Daesh)?
Il diritto all’informazione è applicabile anche in questi casi? E come farlo senza essere accusati di fare propaganda? Il caso peggiora quando l’accusa diventa di fare propaganda per il terrorismo (in passato è stata condotta una vera e propria campagna contro Aljazeera per aver mandato in onda i video di Bin Laden, e ora viene criticata perché parla delle affermazioni dell’Isis, o persino perché si rifiuta di usare il termine “Daesh”).
Il problema si è complicato di recente a causa dell’uso dei social media: Facebook, Twitter e Google non stanno facendo abbastanza per evitare che i loro social network vengano usati dagli estremisti per arruolare, come affermato da una commissione di parlamentari britannici il mese scorso. Un portavoce di YouTube, società appartenente a Google, ha detto che YouTube avrebbe continuato a lavorare con il governo britannico per cercare di capire cosa si possa fare di più. Ad agosto, Twitter ha affermato di aver cancellato 235.000 profili nei sei mesi precedenti, facendo così salire il numero di profili sospesi a 360.000, a partire da metà del 2015.
Per i giornalisti, la propaganda per la guerra o per il terrore si lega anche al contesto politico e culturale dei suoi utenti. Per esempio: Dave Lee, corrispondente informatico per la BBC Nord America a San Francisco, ha affermato dopo le azioni intraprese da Twitter: “La domanda è cosa succederà in futuro? I terroristi continueranno ad aprire nuovi profili e ad usare altre piattaforme. E verranno poste delle domande sul processo di cancellazione dei profili: chi decide? Chi controlla? La definizione di terrorismo e dei suoi autori cambia a seconda di dove vivi e di quali sono le tue opinioni politiche. A Twitter si chiederà: perché non cancellare i profili che pubblicano tweet fascisti? O anti-Israele? O anti-Palestina? O anti-donne? O anti-quel che si voglia?”
D’altro canto, come si può promuovere la pace tramite i media senza cadere nel tranello ingenuo della propaganda morale? È una vera sfida, ma credo che lo scopo possa essere gradualmente raggiunto lasciando il più possibile, che siano figure moderate di entrambe le parte ad analizzare e commentare le notizie, invece dei commentatori radicali od estremisti.
Forse i telegiornali possono aiutare cercando di incoraggiare con molta attenzione tutti i processi e gli accordi di pace condotti dalle Nazioni Unite per risolvere i molti conflitti militari in corso (in Siria, Yemen, Libia, etc.), a prescindere da come vengano condotti.
Anche il profilo dei giornalisti può essere utile. Molti sindacati e associazioni possono contribuire a formare i giornalisti su questo argomento: così come i giornalisti hanno bisogno di formazione per raccontare una guerra, allo stesso modo avrebbero bisogno di essere formati all’arte della negoziazione, dei processi di pace, della negoziazione e del compromesso ecc.
Potremmo cercare di creare occasioni di incontro tra giornalisti che raccontano una guerra da versanti opposti, affinché possano scambiarsi informazioni e punti di vista, e cercare di incoraggiare qualsiasi speranza di pace che possa comparire.
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