Vize-Außenminister, Italien
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L’Europa del Novecento ha vissuto con un’ideale universale. Fu una visione sorretta dal senso indiscusso di superiorità della nostra civiltà. Oggi quel senso di superiorità con cui gli europei guardavano al mondo è tramontato, finito nel calderone e nell’umiliazione della guerra. La prospettiva dell’Europa unita apparve come la soluzione, un destino storico ma anche una necessità. Dal ripudio della guerra nacque il sogno dell’unità. Oggi possiamo dire che l’idea europea è stata un enorme successo che ha trasformato il volto del continente. Il processo di integrazione ha permesso di sconfiggere i restanti regimi autoritari europei sopravvissuti alla seconda guerra mondiale (Spagna, Grecia, Portogallo) e ha dato una prospettiva ai paesi dell’ex blocco sovietico. Giovanni Paolo II convocò Assisi nell’86 anche perché credeva che le religioni potessero contribuire alle transizioni pacifiche. Pensò alla pace in un clima di guerra fredda. Dopo l’89 disse “Non abbiamo pregato invano ad Assisi!”. Lo spirito di Assisi aveva vinto.
In Europa nazionalismi e egoismi nazionali non sono più virulenti che in passato; l’idea europea ha consolidato democrazia, diritti e libertà sul continente e ha generato una prosperità mai vista prima. Tale successo è anche geopolitico in controtendenza al frazionamento e all’instabilità portati dalla globalizzazione dell’economia. Nel nostro tempo globalizzazione e Stati si sfidano. Mentre lo stato nazione ha basato la sua legittimità sulla promessa di incrementare il benessere materiale della nazione, l’attuale mercato globale promette di massimizzare le opportunità per ogni individuo. In mezzo sta l’Europa. Braudel diceva che “la storia d’Europa è (stata) una corsa fra città e stato: quasi si potrebbe dire fra lepre e tartaruga. Ora la lepre, ossia la più veloce città, inizialmente ha vinto, come era logico. Ma il secolo XV vede in Occidente la ripresa e l’arrivo al traguardo delle lente tartarughe. Lo Stato territoriale trionfa proprio in Europa Occidentale” . Oggi -parafrasando- potremmo dire la stessa cosa tra gli Stati e l’UE. La tensione tra i due poli permane forte sia in Europa che nel mondo: “globalisti contro nazionalisti” per usare le parole di David Rothkopf nel suo “Superclass” . Lo vediamo nelle politiche attuali dei BRICS. L’Europa rappresenta una strada peculiare: cooperazione e armonizzazione tra Stati in uno spazio più vasto in cui garantire i cittadini senza negare le nazioni. In questo senso rappresenta un polo di stabilità e di dialogo permanente che influenza positivamente la vita internazionale, un modello di pace di unità nella molteplicità che non sopprime le identità e consente un rapporto privilegiato tra esse proprio mediante il suo metodo negoziale. E’ uno spazio diverso, peculiare, per certi versi nuovo: non un impero, ma una connessione di destini nazionali che condividono un futuro comune. E’ uno spazio senza egemonia nazionale, determinato da una faticosa convergenza, poco rapido e reattivo forse, percorso da divisioni, ma allo stesso tempo originale nel mondo moderno. L’Europa, nelle sue diversità, se unita, realizza la civiltà del vivere insieme, quella civiltà che manca alla globalizzazione omogeneizzante e alla reazione antiglobale degli scontri di civiltà. Tale civiltà manca a un’economia senza umanesimo. Civiltà del convivere è civiltà del futuro.
Tuttavia oggi questa grande visione sembra in crisi. I segnali preoccupanti ci sono e sono molteplici. In alcuni Stati, come il Belgio, si erodono le strutture dello Stato unitario. Ciò mostra che gli Stati possono morire, anche quelli ricchi. E’ in crisi la città europea, simbolo storico di civiltà. Il problema delle periferie e delle zone marginali si è rifatto vivo con acutezza durante le rivolte inglesi di quest’estate, senza dimenticare i fatti delle banlieues francesi e altrove. Nelle città d’Europa si insinua una malessere evidente mentre la coabitazione si fa precaria. Una certa politica, a corto di visioni e di idee, alimenta talvolta la cultura della paura e del sospetto, enfatizzando allarme sociale, differenze e incompatibilità. La grande crisi economica del 2008, che non passa, ha amplificato anche in Europa il senso di insicurezza, reso ancora più intenso dalla crisi dei debiti sovrani. Nel continente sono nate numerose formazioni politiche in difesa delle piccole identità locali. Le ultime elezioni europee sono state un segnale preoccupante. Nei Paesi Bassi, Svezia, Ungheria, Gran Bretagna, Danimarca ecc. emergono formazioni xenofobe con programmi anti-islamici, anti gitani, ostili all’Europa. Sono in difficoltà le reti sociali ed educative, viene meno la prossimità delle istituzioni con la gente, cresce l’antipolitica e la scorciatoia del populismo, le forme di associazionismo e di partecipazione si rarefanno. Anche le Chiese a volte fanno fatica ad costituire un tessuto connettivo, benché le parrocchie spesso restino gli unici spazi aggregativi sul territorio. C’è la crisi della famiglia, un fenomeno comune a tutto l’Occidente, in preda alla disarticolazione.
Ulrich Beck ha scritto che il successo del populismo xenofobo è una reazione al vuoto di prospettive. Abbiamo costruito una grande macchina ma non sappiamo che farcene. Nel suo recente libro sul potere mette sotto accusa la cultura delle classi dirigenti che “fanno come se Germania, Italia, Francia esistessero ancora… invece non ci sono più da un pezzo… viviamo con categorie da zombie”. Il non rendersi conto della nuova situazione, il non adattare la nostra cultura politica alla nuova dimensione, fa scivolare indietro e crea lo spazio del populismo, risposta irrazionale a un problema reale: la distinzione tra internazionale e nazionale è stata infatti quasi del tutto cancellata. I nostri Stati sono troppo piccoli (anche i più grossi) per l’economia globale ma le nostre categorie di pensiero non riescono ad andare oltre i vecchi schemi. E’ un’accusa a tutta la cultura europea, presa da atteggiamenti “vintage” o dalla “sindrome del retrovisore”, paurosa di una nuova ambizione.
Non sarebbe invece proprio questo il tempo opportuno per ridefinire la missione europea? Più che in passato gli europei si interrogano sulla loro identità, sulle frontiere, sulle istituzioni future, sul proprio posto nel mondo. Tali domande talvolta terminano con risposte semplificate ma rappresentano anche una grande opportunità. Il rischio sono le semplificazioni del localismo e della frammentazione. La gente si sente espropriata in un mondo globalizzato. La reazione istintiva di ripiegamento fa anche sorgere il timore che l’Europa voglia imporre propri astratti modelli di vita e c’è disaffezione nei confronti di istituzioni che appaiono lontane e poco leggibili. Rifugiarsi nelle proprie piccole patrie è una scorciatoia. Benedetto XVI parlando nel 2005 agli episcopati della Comunità Europea, manifestò inquietudine sul futuro del continente, constatando come “stia di fatto perdendo fiducia nel proprio avvenire”, concentrato su un “pericoloso individualismo, disattento alle conseguenze per il futuro”, per il quale “la solidarietà viene incentivata a fatica” e in conseguenza del quale anche “il processo di unificazione europea si rivela non da tutti condiviso”. E concludeva che, su questa strada, l’Europa rischia di incamminarsi “su una via che potrebbe portarla al congedo dalla storia”. Alla storia non si sfugge. Non dobbiamo illuderci: la nostra heimat, il nostro mondo locale, non durerà a lungo senza l’Europa. Pensare di navigare nella storia globale disuniti è un abbaglio, pena l’essere condannati all’irrilevanza. L’impatto con la globalizzazione, con l’India, la Cina, con civiltà, economie e demografie in ascesa, pone il problema di una rinnovata presenza europea sugli scenari mondiali. L’Unione è la sola risposta adeguata alle grandi sfide di civiltà, è la vera reazione al degrado delle nostre società e al declino. Ma le occorre una nuova missione, che risvegli negli europei il sentimento del loro futuro comune. Occorre dare una risposta non tecnocratica né semplificata ai loro interrogativi. Serve dunque un pathos europeo: per creare “più Europa” bisogna uscire dal modello tecnocratico (e funzionale) per fare appello alla profondità delle sue radici e ai sentimenti dei suoi cittadini. E’ il momento di rivolgersi ai cittadini, di rispondere alle loro domande (e non lasciare che siano solo i populisti a farlo), di avere il coraggio di ricercare un consenso vasto e popolare, di costruire un “patriottismo europeo”. Secondo Habermas è possibile creare tale solidarietà popolare che oltrepassi i confini nazionali, tanto più che il sentimento nazionale non era antico ovunque nelle nazioni europee e ci ha messo un secolo per affermarsi . Le grandi manifestazioni per la pace del febbraio 2003 sono il segnale della nascita di un’opinione pubblica europea. Per troppo tempo si è tenuta l’Europa chiusa nei circoli ristretti dei tecnocrati, per timore delle vecchie pulsione nazionaliste. Oggi occorre il coraggio di una vera “politica unitiva” che passi per un’adesione popolare vasta.
Dobbiamo ammettere che è la riluttanza delle classi dirigenti europee a limitare la portata di ciò che l’Europa può diventare per il mondo nel futuro. La crisi del debito greco le ha gettate nel panico: com’è possibile se si tratta solo del 3% dell’area Euro? Ogni lentezza nel gestire l’attuale crisi viene percepita dall’esterno come riluttanza, impotenza. Ma l’Europa è ben vista globalmente, se si fa il paragone con com’erano viste le potenze europee ancora qualche decennio fa. Essa mostra di non voler giocare il ruolo di classica grande potenza, caratteristica che l’ha definita per secoli. Appare meno minacciosa. Ha un potere di attrazione. L’Europa ha un ruolo considerevole dal punto di vista giuridico: le istituzioni europee pretendono, spesso riuscendoci, di imporre la norma universale. Si pensi alle questioni riguardanti gli OGM, il clima, il commercio internazionale o i diritti umani come la pena di morte ecc... Ciò che di positivo si è fatto in questi ultimi decenni su tali terreni, è frutto di un impulso della UE. Da un punto di vista normativo, impressiona il fatto che gli altri attori importanti, come gli Usa o la Cina, in una certa misura vi si adeguino. Gli esperti non europei parlano di “impero post-moderno”, di “potenza quieta” o di “potenza basata sulla norma”. Il “sogno europeo”, quello dell’invenzione di un nuovo sistema di relazioni internazionali, è più stimato all’estero che in Europa stessa. Si fa strada l’idea che l’Europa incarni un’invenzione unica nella politica mondiale. C’è più bisogno di Europa fuori dai nostri confini che dentro. Si pensi all’Africa. Oggi l’UE è il maggiore donatore al mondo in termini di aiuto pubblico allo sviluppo. Ma soprattutto un appello della storia viene all’Europa dalla recente Primavera araba. È una svolta epocale, simile a quella dell’89: la democrazia diviene la richiesta di interi popoli prima sottomessi a spietate dittature. Noi europei sappiamo che la democrazia è un percorso lungo e complesso. La geopolitica ci mette in prima linea davanti alla necessità di accompagnare tutto un mondo alla democrazia. In fondo piazza Tahrir è stata la vera risposta al terrorismo, all’11 settembre! Gli Stati europei, invece di spaventarsi perché la storia si è rimessa in movimento, e litigare su 50.000 profughi e forse sul petrolio libico, dovrebbero darsi una linea comune per il futuro del Mediterraneo. Si tratta di una missione storica a cui l’Europa può e deve prepararsi.
Nel futuro dell’Europa c’è la vocazione a diventare in maniera cosciente una forza unificante per il mondo, capace di creare dialogo tra popoli divisi dalla storia, senza cancellarne le identità. Gli europei sanno come si può risalire dall’inferno dell’odio. Se nel disordine mondiale si indebolisce lo spirito dei popoli e la tenuta degli Stati nazionali, ci si può attendere dall’Europa una risposta unificante che miri all’incontro, alla pace. Per dominare la globalizzazione occorre un soprassalto di unità europea. E’ necessario un nuovo slancio che impegni tutti gli europei in una grande opera collettiva, crei un sentimento, sostenga una visione di ciò che può rappresentare l’Europa nel mondo di oggi. L'Europa deve cessare di essere solo un sistema di alleanze e una composizione di interessi per diventare una comunità di destini, una passione e un sogno. Alle fragilità e inadempienze delle politiche nazionale la sola vera risposta è quella europea. E’ illusorio asserragliarsi nella conservazione della ricchezza della propria città, regione o paese. Occorre guardare più lontano: all’interesse superiore dei nostri paesi e dei cittadini. Occorre chiedersi cosa vogliamo fare insieme. Certo in questo new deal, a più solidarietà da parte dei paesi più forti deve corrispondere più serietà da parte degli altri. L’Europa ha senso solo nel proporre al mondo un modello del vivere insieme e per gli altri: la civiltà del convivere è la vera risposta europea al terrorismo, al fanatismo e al fondamentalismo. Come scriveva Tommaso Padoa Schioppa, recentemente scomparso: “L’Europa ha portato al mondo i suoi tesori e i suoi mali. Chi oggi in Europa vede solo quei mali ed è agitato da quel senso di colpa, si ritrova al posto giusto e nel momento giusto per fare qualcosa di utile all’insieme del pianeta”. |