E' il primo corridoio umanitario per profughi dall'Africa sub-sahariana. È entrato nella fase operativa l'accordo con i ministeri dell'Interno e degli Esteri sottoscritto dalla Conferenza episcopale italiana e dalla Comunità di Sant'Egidio. Un protocollo - sostenuto con i fondi dell'8 per mille - che darà a 500 persone particolarmente vulnerabili l'occasione di rifarsi una vita, in sicurezza e dignità. Ieri mattina prima dell'alba all'aeroporto di Fiumicino sono atterrati - alle quattro e mezzo del mattino - 25 uomini, donne e tanti bambini, salvati dai campi profughi dell'Etiopia. Dieci saranno accolti e accompagnati in un percorso di integrazione da Caritas italiana e Fondazione Migrantes, in collaborazione con le diocesi. Gli altri dalla Comunità di Sant'Egidio.
Dopo l'esperimento lanciato con successo per i profughi siriani - dalla Comunità di Sant'Egidio assieme alla Tavola Valdese e alla Federazione delle comunità evangeliche - ora la formula è stata fatta propria dalla Chiesa italiana, che si è avvalsa dell'esperienza nel settore della Comunità di Sant'Egidio. Il primo sbarco, da un volo Ethiopian airlines, è arrivato a dieci mesi dalla firma del protocollo, perché prima la Caritas ha voluto trovare la disponibilità per l'accoglienza. E sono 50 le diocesi che si sono già fatte avanti per tutti i 500 arrivi previsti.
Ieri mattina a dare ai richiedenti asilo il benvenuto c'era il segretario generale della Cei monsignor Nunzio Galantino, col direttore Caritas don Francesco Soddu e il responsabile immigrazione Oliviero Forti. C'è anche il presidente di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo. Al Terminal 3 monsignor Galantino sorride, stringe mani e accarezza i bambini che sventolano i piccoli tricolore e gridano «Viva l'Italia»: «La speranza- dice il segretario generale della Cei - è che il ripetersi dell'esperienza dei corridoi umanitari diventi una prassi consolidata, sia cioè la strada per chi deve realizzare il sogno di vivere con dignità. Que- sta esperienza non nasce oggi, ma si pone a fianco di altre iniziative che la Chiesa italiana sviluppa in questi paesi di migrazione e transito da più di 30 anni». Impagliazzo dal canto suo sottolinea che «il criterio adottato è quello della vulnerabilità e non è un caso che un terzo di loro siano bambini».
A rappresentare il governo italiano c'è il prefetto Mario Morcone: «Cominciata con una piccola sperimentazione, questo è diventato il progetto con la "p" maiuscola - dice - la strada del futuro che permette ai profughi di non rischiare la vita nel deserto o in mare. Questo è il significato anche dell'accordo voluto dal governo con la Libia, per portare i profughi in Italia o per ricollocarli in altri Paesi. È tempo di una svolta, siete la testimonianza che non si tornerà indietro».
Per il ministero degli Esteri c'è il direttore generale per le politiche migratorie, Luigi Vignali: «Questo modello di cooperazione tra Cei, Sant'Egidio, Viminale e Farnesina - spiega - per la prima volta apre un corridoio in Africa che accoglie tre nazionalità, somali, sud-sudanesi ed eritrei, per migranti in condizioni di particolare fragilità. Cambia l'area, ma la costante è la protezione dei diritti umani e dei profughi più vulnerabili. Unendo solidarietà e sicurezza».
Vulnerabili come la famiglia di sette somali, ripartiti subito per la diocesi di Ragusa assieme al direttore della Caritas diocesana Domenico Leggio. All'arrivo li ha accolti il vescovo Carmelo Cuttitta. Ali Mohamed Abdi, 54 anni e la moglie Kadij a Hussen, 31 anni sono arrivati con loro cinque bambini di 2, 5, 8, 13 e 15 anni. Musulmani, sono stati perseguitati un gruppo islamico fondamentalista. Una delle bambine è affetta da lupus eritematoso sistemico, malattia cronica autoimmune, che si è già portata via un fratellino. Per loro un appartamento di proprietà della cattedrale. Tante le famiglie che hanno portato vestiti e giocattoli. La Caritas di Ventimiglia invece accoglie un papà sud-sudanese, solo coi suoi due bambini, una dei quali ha un grave problema a un occhio. Efrem, 25 anni, è eritreo e rivede oggi sua sorella Shewa, 38 anni, che lo aveva lasciato bambino. Il loro abbraccio dura minuti, tra lacrime di gioia. Shewa lo accoglierà temporaneamente nella sua piccola casa ad Orvieto, dove vive coi tre figli e il marito che fuggì per primo. Poi partì lei, incinta, lasciando in Eritrea suo malgrado una figlia, attraversando il Sahara e il Mediterraneo. Poi lo sbarco in Italia, l'arrivo in Svezia, il respingimento in Italia per la clausola di Dublino. Shewa riuscirà a far arrivare la bambina. Ora, divenuta cittadina italiana, Shewa riabbraccia il fratello: «È un miracolo, devo tutto a queste persone meravigliose».
Luca Liverani
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