Nessuna «militarizzazione» dell'aiuto umanitario, nessuna polemica e pieno rispetto per i bambini attraverso adozioni regolari. È severo il monito di Pierre Dumas, vescovo e responsabile della Caritas di Haiti, che affiora dalla lunga testimonianza che ha portato ieri a Roma, ospite della Comunità di Sant'Egidio. Un racconto denso quanto drammatico di quale sia in queste settimane la tragica realtà haitiana, ma dal tono anche speranzoso per il futuro, per la ricostruzione del suo paese. A patto che si scelga la via del dialogo e dell'ascolto della comunità haitiana, anziché quella della corsa alla leadership, e che si recuperi il senso originario della «compassione» nei confronti di un popolo che «merita rispetto».
«Davanti ai cadaveri è indegno che ci si metta ad alimentare polemiche che non servono. Diciamo no a rese dei conti e tornaconti, è il momento della gratuità, della massima generosità, della collaborazione. Ci vuole saggezza», scandisce monsignor Dumas rispondendo a chi gli chiede conto delle accuse per la gestione degli aiuti sollevate a gran voce da Guido Bertolaso nel corso della sua missione sui luoghi del terremoto caraibico. Lo ripete più volte nel suo incontro con la stampa, insistendo nel sottolineare che «non c'è bisogno di molte speculazioni, ma di amici, di un fratello che ci può accompagnare in questo lungo calvario.
Servono attenzione, amicizia e benevolenza, tutto il resto è inutile», spiega, questo è il tempo del dialogo, della meditazione, di chiedersi «come si può aiutare un popolo che ha perso tanto, che è a terra». Questa oggi, dice, è la sfida dell'umanità: lavorare insieme agli haitiani, non cercare di fare al posto loro. «Questo deve essere il compito di tutti, adesso».
Ma ce n'è anche per gli altri: gli Stati Uniti, ad esempio, che «hanno fatto tanto ma potrebbero fare di più, vista la loro prossimità geografica», dovrebbero rendere l'aiuto «effettivo» per raggiungere veramente il popolo haitiano, «perciò bisogna evitare la militarizzazione degli aiuti». Nessun paese può mettere da parte altri paesi, nota il vescovo, convinto che in pieno spirito di collaborazione si dovrebbe invece lavorare insieme per «offrire il miglior servizio possibile». «Ognuno può dare il proprio aiuto: chi è esperto nell'educazione, chi nella costruzione delle reti elettriche e così via. Ogni paese può trovare il proprio posto. C'è spazio per tutti», ha detto chiaramente Dumas, che pure, ha chiosato, potrebbe fare ancora di più. Dopotutto «se Haiti duecento anni fa non avesse lottato per l'indipendenza forse oggi lui non sarebbe presidente degli Stati Uniti».
Duro il vescovo lo è anche con chi sta approfittando della situazione tragica e della fragilità dei bambini per tentare adozioni illegali. «C'è modo e modo di adottarli», ammonisce, serve rispetto e dignità. Non si possono incoraggiare le persone a sfruttare la situazione e cercare di adottare senza documenti», meglio allora il sostegno a distanza o forme di affido, in collaborazione diretta con la famiglia.
Il suo racconto appassionato è quello di un paese che ha collassato, che è quasi tutto crollato, che non c'è più e che pure si trova costretto a fronteggiare «un dramma incredibile». Per le strade si aggira un gigantesco esercito di indifesi, difficile da immaginare. Non solo ci sono stati 180mila morti ma ci sono altrettanti feriti, all'aperto, tra i cadaveri e ci sono circa duecentomila scomparsi, un milione di senzatetto e un milione e mezzo di migranti che lasciano Portau-Prince e premono su tutte le altre città e ci sono persone che fuggono, in Canada, negli Stati Uniti o in Francia. Questi sopravvissuti sono vittime di ogni genere, coinvolte più o meno direttamente dal sisma, segnate da traumi di tantissimi tipi diversi, racconta monsignor Dumas. Magari sono bambini colpiti mentre erano a scuola e spaventati, che non vogliono più allontanarsi e che in quei luoghi non tornerebbero mai. Ma intanto quei luoghi non esistono più, sono crollate le scuole come gli ospedali, i palazzi, come tutto quello che c'era intorno a loro, che restano testimoni involontari di come un paese già debole, sofferente per la sua storia per le dittature che ha vissuto, è stato punito, colpito nel suo centro nevralgico. Eppure questo paese che si sente abbandonato e ha paura di esserlo, non ha perso la dignità che lo contraddistingue, nonostante la devastazione. E non vuole perderla. Nonostante il sistema sia crollato, tutti i prigionieri siano fuggiti dalle carceri, e i poliziotti siano stati a loro volta decimati dal terremoto, il tasso di violenza non è aumentato e sono i comportamenti civili ad aver guidato la gente in una reazione «molto umana è pacifica». Quella gente, la popolazione di Haiti «deve essere protagonista della ricostruzione e della propria storia». La popolazione però, è nuda davanti al dramma: non ha vestiti, non ha luoghi dove ripararsi e se trova il cibo e anche l'acqua (questa è una situzione che sta migliorando, dice) magari non ha un recipiente dove metterla. Non solo. Senza istituzioni, banche, biblioteche e università, senza più il porto, spaccato, senza gli archivi, è la storia stessa di Haiti a rischiare di scomparire ed è per questo che si devono creare le condizioni per ripartire, con una nuova visione e nuovi simboli, visto che quelli vecchi sono scomparsi.
Per monsignor Dumas questa è l'occasione per creare un mondo diverso, più giusto. «Questa crisi ci mette davanti a una ricerca della bontà fondamentale che c'è nel cuore umano». Un'occasione che non si può perdere per dare una risposta al desiderio di un popolo che sia il «soggetto storico che prende il suo destino in mano». Non per niente il vescovo, che si congeda citando due proverbi haitiani («i buoni conti fanno buoni amici» e «i buoni amici non sono per un giorno»), racconta anche come la chiesa reagisca e come, nonostante le perdite, stia ancora facendo molto: i preti, pure privati degli abiti ufficiali, riescono ancora a celebrare messa nonostante le chiese crollate, e se pure devono contare molte vittime e faticano a proseguire le attività in cui erano impegnate prima del sisma, non perdono la fiducia. Gli aiuti della Caritas ad Haiti, ad esempio, hanno già raggiunto 140mila persone attraverso piccoli e progressivi interventi che, grazie ai centri attivi su tutto il territorio, hanno consentito finora di distribuire cibo a 113.978 persone e altri generi di prima necessità a 21.278 persone. Il piano di prima emergenza prevede di raggiungerne 200mila entro due mesi, con aiuti per 31 milioni di euro.
Longo Valentina
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