Le cronache riportano, di tanto in tanto, la notizia dell’esistenza a Milano e in altri luoghi di bande di giovani, di origine latinoamericana, che partecipano alle cosidette maras, tristemente famose in Salvador e in altri Paesi del Centroamerica. Le maras sono bande nate tra gli immigrati latinos negli Stati Uniti. Giovani impauriti ed emarginati, figli della guerra civile nel caso del Salvador, che vivono la fascinazione della società 'affluente' nordamericana e che, non potendo replicarne gli stili di vita, finiscono per imitarne gli aspetti più estremi, tra cui la violenza e il mito del denaro.
Dagli Stati Uniti il fenomeno si è diffuso nei contesti centro e sudamericani. Le gang hanno iniziato ad affiliare gli adolescenti, a dedicarsi ad attività criminali, a proporre una cultura della vida loca, come titola uno dei più conosciuti film dedicati alle maras . Chi lavora per rispondere alle tante emergenze educative del nostro mondo, chi ha a cuore il futuro delle giovani generazioni, ha ben presente il pericolo di un modello culturale così tragico e violento. È triste vedere come tanti giovani s’indirizzino non verso un associazionismo sano, solidale, desideroso di cambiare in meglio la società, bensì verso una rete di sopraffazione, di degrado, di morte. Ho personalmente conosciuto William Quijano, della Comunità di Sant’Egidio di Apopa in Salvador, ucciso il 28 settembre 2009 in circostanze misteriose, probabilmente per mano di una delle maras che imperversano in quel Paese centroamericano. Quelle stesse maras cui lui cercava, con il suo lavoro civile – era promodor sportivo per il comune di Apopa – e con il suo impegno cristiano – tramite la Scuola della Pace di Sant’Egidio – di strappare i più giovani. È sempre più evidente ormai la fragilità dei giovani urbanizzati, che è carenza di modelli di riferimento buoni, povertà culturale, vuoto di valori, alla fine facilità a essere fagocitati da modelli violenti.
L’espansione delle maras tra i giovani immigrati latinoamericani in Italia è allora un segnale da non sottovalutare, che ci avverte dello spaesamento di tanti giovani e dello sfilacciamento del nostro tessuto di convivenza. Non è solo un problema che riguarda gli immigrati. È la questione dei nostri giovani, delle nostre periferie. C’è tutta una fascia d’età che cerca confusamente modelli e non li trova, se non quelli violenti o volgari del capobanda. C’è tutto un mondo minorile che ha a casa più televisioni che libri. Questo incide, e pesantemente, sulla strada che quei giovani, prenderanno nel futuro. La responsabilità di tutti noi – istituzioni, società, scuola, famiglie – è grande. Sta a noi prendere sul serio le giovani generazioni, fornire esempi, prestare ascolto, suggerire parole e percorsi.
C’è bisogno di un grande investimento culturale, che aiuti a recuperare la centralità di idee e di valori in un mondo che è senza centro, che è tutto 'periferico', e dove si può essere tentati di recuperare una propria centralità, una propria visibilità, con la violenza, con la contrapposizione, con la fuga. Dobbiamo impedire che le nostre periferie vadano alla deriva. Spesso oggi sono deserti d’individui. L’integrazione va promossa con più forza e più intelligenza: riguarda gli stranieri e gli italiani. Insieme. Da soli siamo tutti più deboli. E ciò è vero soprattutto per i più giovani. Per coloro i quali sentono più acuta la domanda di senso, e più forte, di conseguenza, il vuoto di risposte. I giovani hanno voglia di legami a tutto campo, di riferimenti, che siano forti e saldi. C’è da far crescere il senso di un legame reciproco, di un legame con la gente, con le altre generazioni – in particolare con gli anziani – con le tante articolazioni della società. C’è da ritessere un tessuto umano che è stato poco coltivato. Perché è sicuro: da soli non ci si salva, e non si vince quasi mai; insieme ci si salva, e si vince sempre.
Marco Impagliazzo
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