Con Olivier Clément – il teologo morto a Parigi il 15 gennaio scorso all’età di 87 anni – scompare un uomo particolare, unico. Francese, imbevuto della grande cultura umanistica del suo Paese, ha incontrato – dopo una storia di ateismo – la fede nella tradizione ortodossa, testimoniata in Francia dai grandi dell’emigrazione russa. Martedì 20 gennaio, ai suoi funerali nella chiesetta parigina di Saint Serge, cenacolo teologico di tante intelligenze russe, mi sono permesso di ricordare un’espressione di Giovanni Paolo II, parlando di Clément: «Così bisogna essere». Alludeva al cristiano che respira con «due polmoni», l’Occidente della sua cultura e l’Oriente della sua fede. Con la sua vita, prima che con la sua vasta opera, Clément è stato un uomo dell’unità, senza facili irenismi, ma con grande originalità. Un cercatore dell’unità dei cristiani. Ma è stato anche un europeo, che ha sognato una missione pacifica, ricca spiritualmente, per il nostro continente, unito nella molteplicità delle identità. Dopo l’89, ha denunciato il rischio dei nazionalismi dell’Est e l’occidentalizzazione prepotente. Oggi, in questo tempo in cui coltiviamo le divisioni e le frontiere, magari in nome dei diritti dell’identità, la sua memoria resta un punto di ispirazione per chi non ha rinunciato a credere nell’unità dei cristiani come una priorità, per chi crede nell’Europa come forza "umana" in un mondo difficile. La sua vasta opera, caratterizzata da una scrittura incisiva e da un metodo sapienziale, è un tesoro su cui chinarsi con rinnovata attenzione.
Clément non è stato un grande accademico, ma un professore di liceo: modesto, sobrio, talvolta marginale, ha avuto un "potere" convincente della parola, della scrittura, dell’amicizia. Ho potuto constatare l’intensità con cui viveva l’amicizia, solo strumento attraverso cui esercitava la sua "dolce" influenza e in cui manifestava il suo grande interesse per i problemi del mondo. Aveva ammonito sulla ricerca del potere, che vuole piegare gli altri in una fusione con sé, e praticava la gratuità della comunione. Dopo aver vissuto il ’68 ricordando il valore della tradizione (per lui simboleggiata dal colloquio con il patriarca di Costantinopoli, Atenagora), non si era rassegnato. La malattia e la vecchiaia non lo avevano imprigionato nella rassegnazione e nell’impotenza. Il mondo andava cambiato, perché troppi soffrivano. Ma ammoniva: «Le sole rivoluzioni creatrici della storia sono nate dalla trasformazione dei cuori». Il cristianesimo è la grande via per cambiare gli uomini e il mondo, per "divinizzare" l’umanità ed evitare che diventi un inferno. Fino alla fine non ha smesso di ricordare – come scrive nel suo ultimo libro, dedicato alla Comunità di Sant’Egidio, Dio è simpatia (Leonardo Mondadori Edizioni) – che «solo un cristianesimo profondo e generoso può costituire la bussola che ci permette di navigare sull’oceano di questo mondo difficile e complicato».
Andrea Riccardi
|