« Costruire la pace vuol dire, per esempio, disinquinare i cuori da tanta abitudine all'indifferenza e alla violenza». Monsignor Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, è stato per molti anni l'anima della Comunità di Sant'Egidio. Fin dai tempi del liceo, a Roma, si è appassionato all'incontro con i poveri, ed è così che è diventato «prete di tutti», un pastore che, come dice Papa Francesco «porta addosso l'odore delle pecore». La pace per lui non è teoria ma un impegno quotidiano che si gioca nelle relazioni tra persone. Nei giorni scorsi, monsignor Zuppi si è recato a Cà Maitino di Sotto il Monte per incontrare, con una quarantina di suoi sacerdoti, il cardinale Loris Capovilla. Noi lo abbiamo incontrato alla Comunità del Paradiso, in una pausa del convegno «Tra memoria, martirio e profezia».
Che cosa vuol dire per lei, in concreto, impegnarsi per costruire la pace?
«Disinquinare, prima di tutto, i cuori da tanta abitudine all'indifferenza e alla violenza. Pensiamo a quanto questi due tratti siano funzionali l'uno all'altro, a quanto facilmente si passi dall'indifferenza alla violenza e viceversa. Lo stesso Papa Francesco invita costantemente a non accettare la globalizzazione dell'indifferenza, che è proprio il terreno di coltura in cui crescono i conflitti, e rappresenta un alleato naturale di chi vuole provocarli».
Com'è incominciata l'attività della comunità di Sant'Egidio?
«L'esperienza della comunità di Sant'Egidio è nata dall'attenzione alla povertà e da una semplice constatazione. Per usare un'espressione che è molto cara ad Andrea Riccardi: la guerra è madre di tutte le povertà. Ed è parso subito chiaro che è di essa che dovevamo occuparci per rimediare a situazioni come quella, per fare un esempio, del Mozambico. La popolazione era ridotta alla fame, i sistemi scolastico e sanitario erano quasi inesistenti e all'origine di tutto questo c'era il conflitto che paralizzava il Paese e distruggeva le pochissime strutture presenti, perché assorbiva tutte le risorse. Per amare e difendere i poveri abbiamo dovuto necessariamente cercare le vie della pace. Il presupposto era ed è valido ancora oggi: la pace è sempre possibile. In tanti modi, anche appunto quelli della diplomazia e del dialogo. In ogni caso non possiamo mai abituarci né rassegnarci alla guerra».
Anche le parole, i pensieri contano, per creare un circuito «virtuoso» nella società e nella politica. È stato possibile alimentare in questi anni grazie alle iniziative della Comunità di Sant'Egidio una cultura di pace, e come?
«La guerra nasce dall'incomprensione, dall'interesse, dall'uso irrispettoso dell'altro, dal pregiudizio, dall'ignoranza. Tutto ciò che va contro questi aspetti contribuisce, al contrario, a costruire la pace. C'è un altro aspetto da considerare: la guerra dura ben al di là della sua fine tecnica, perché lascia dietro di sé uno strascico di odio, di vendetta, di rivincita, di contrapposizione. Perciò è indispensabile che esista una cultura della pace che preservi da eventuali nuovi conflitti e sani le ferite che essi provocano nelle persone».
Quali sono i semi più importanti che la Comunità sta piantando in questi anni?
«I semi più importanti si depongono nel terreno grazie al lavoro concreto: ciò che è accaduto in Mozambico ma anche in altri Paesi. Questo lavoro è la dimostrazione che tutti possono fare qualcosa per la pace, quindi che accanto agli addetti ai lavori ci sono e possono esserci sempre tanti "artigiani", veri pacificatori, ognuno secondo i suoi talenti. Credo che il Vangelo ci chieda in maniera esigente di essere tutti artigiani di pace e l'esperienza della Comunità di Sant'Egidio va in questa direzione, per far vedere a tutti che è possibile».
Papa Francesco ha detto più volte che è in corso una guerra mondiale a pezzi. I fatti sembrano sostenere la sua tesi. Questo forse rende ancora più importante in questo momento per la Chiesa, i cristiani, le comunità l'impegno per la pace. Che ne pensa?
«La definizione di Papa Francesco ci aiuta a inquadrare i singoli conflitti, apparentemente lontani tra loro, in un contesto più generale, a dire che la guerra è globale e riguarda tutti. Ci spinge a non sottovalutare nessun focolaio. Spesso invece ragioniamo esattamente al contrario, come se ogni episodio rappresenti una storia a sé. A volte seguendo le notizie che riguardano alcuni conflitti, magari lontani, in Africa, oppure più vicini a noi ma circoscritti, coviamo l'illusione di poterli limitare, tenere a bassa intensità, mentre ognuno di essi ci sfida a cercare una soluzione. Perché questo avvenga bisogna coinvolgere tanti soggetti, nessuno ha da solo la chiave, tutti dobbiamo fare la nostra parte».
Come prosegue ora il suo impegno alla guida della diocesi di Bologna?
«Vedo l'attesa di tante persone e vedo come la Chiesa risponde a una domanda di senso, di futuro, di speranza, di umanità delle persone. Questa Chiesa è madre in tanti modi. Papa Francesco spinge molto i preti a un atteggiamento che lui chiama di prossimità, a guardare con simpatia, con empatia il mondo intorno, a non chiudersi in roccaforti e difese, credendo così di conservare la propria identità. Costruire muri è sbagliato, ci fa ammalare e basta. Possiamo trovare e conservare la nostra identità anche andando per strada, confrontandoci con il mondo e con l'umanità così com'è. Uscire e incontrare gli altri ci fa capire meglio quale ricchezza abbiamo».
Anche San Giovanni XXIII incarnava questo ideale di prete vicino alla gente, e nel Concilio si leggeva già un'idea di Chiesa pronta a dialogare con il suo tempo. Da allora cosa è cambiato, e cosa resta?
«È cambiato tutto. Quello di Papa Giovanni era ancora il mondo che emergeva dalla Seconda guerra mondiale, con ferite terribili, ma disposto a nutrire la speranza di un futuro migliore. Oggi siamo in un contesto per certi versi più complicato, in cui è difficile orientarsi, in profonda trasformazione, molto più disilluso, in cui il futuro appare minaccioso. Ma cinquant'anni dopo quello che non è cambiato è l'atteggiamento che ha segnato in modo particolare l'inizio del Concilio: quella simpatia immensa di Papa Giovanni che Papa Francesco ci aiuta a rivivere. In modo del tutto diverso torna la stessa passione per le domande dell'umanità perché il Vangelo ha
sempre tanto da offrire. Quella che San Giovanni XXIII chiamava medicina della misericordia ci viene riproposta da Papa Francesco come la chiave per rimetterci per strada e per guardare in modo diverso il mondo».
Sabrina Penteriani
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